APPENDICE QUARTA

Polemica

Egregio Amico
Perugia, 4 ottobre 1864.

Poichè si affaccia anche in Italia, per la parola vivace di una mente ardita e svegliata, le [sic] dottrina predicata in Francia da Moreau di Tours sulla intimità che unisce, a suo parere, il genio e la pazzia (l), dottrina già nella Francia stessa validamente combattuta (2), e anche da voi con penetrante sguardo giustamente considerata (3), potrò io pure esporvi il mio avviso sulla strana questione, ma che risveglia tuttavia con una specie di ansiosa inquietezza l'umana aspettativa? Mi concederete di dissipare, scrivendo, un senso di tristezza, che si solleva nell'animo mio, a vedere questo ribelle tentativo d'incatenare e confondere insieme quanto vi ha di più alto e luminoso nella umana natura a quanto vi ha in essa di più misero, disordinato ed oscuro, di prostrare il genio fra le tenebre e nello scompiglio della pazzia?

(1) La psychologie morbide dans ses rapports avec la philosophie de l'histoire. Paris, 1859.

(2) De la Raison, du Genie et de la Folie, par P. Flourens. Paris, 1861.

(3) Archivio Italiano per le malattie nervose, ecc. Tomo I, pag. 335.

Ma la mente umana dee confessare il vero, dee confessarlo anche allora che le riesca penoso di conoscerlo. Qual' è dunque propriamente il vero in seno alla minacciosa questione? e quali cose realmente vi scopre la diligente e intera considerazione dei fatti?

L'uomo di genio, si adduce, trascorre a disordini morali, che lo conducono nella schiera degli alienati. Ma pure si riconosce che non tutti li uomini di genio non offrono tali disordini; e si conclude, dallo scrittore italiano con più temperanza che dal francese, che il genio non è sempre, ma è il più delle volte alienato. Quindi furono alienati Socrate, Cardano, Maometto, Pascal, Lutero, Newton, Haller, Rousseau, Swift, Ampère, Cellini, Carlo XII, Barthez, e quasi tutti li altri.

Se però il genio è spesso, ma non sempre, turbato da disordini morali, conveniva dapprima ricercare se tali disordini sì sollevano più spesso negli uomini di genio, che negli altri. E tale indagine, non solo non è stata con qualche esattezza risoluta, ma neppure intrapresa. È facile che que' disordini appariscano più spiccati e meglio fermino la commune attenzione nelle persone di genio; perchè il genio richiama in modo singolare l'ammirazione e i riguardi degli uomini; perchè ogni ombra che si accampi nella splendida luce di quelle menti privilegiate vi fa più forte contrasto. Ma qualora si esaminasse con eguale premura la vita particolare degli altri uomini, che passa in gran parte inavvertita, non vi troveremmo forse disordini simiglianti? Dov' è che la umana vita, così mobile e agitata di sua propria natura, non offra disordini in una od in altra attitudine? Però il confronto fra i disordini parventi in mezzo agli splendori del genio, e i disordini che si nascondono nella vita più obliata degli alti uomini, non è compìto; e quindi non può con rigore affermarsi che il genio venga offeso da quei disordini con più forza e frequenza.

Non di meno concederò che questo appunto si verifichi; ed in vero sono proclive a crederlo per ragioni, che toccherò appresso. Ma sono quei disordini, dai quali anche il genio è turbato, valevoli a costituire nell'animo, che li soffre, una mentale alienazione? Innumerevoli e frequentissimi sono i disordini morali, che non giungono ad essere alienazione, nè malattia di sorta, come è chiaro a chi consideri la varietà dei caratteri e delle attitudini, che è nell'umana famiglia, e delle perturbazioni che vi trascorrono. E qual diligente e sagace indagine si è operata per riconoscere se i turbamenti che travagliarono uomini di genio, siano valevoli a costituire alienazione? Non era questa un'ardua e decisiva questione che è rimasta q uasi affatto in trascuranza? Invece si sono addotti, come segni di alienazione, disordini lievi ed insignificanti. Moreau di Tours, che stima il genio una nevrosi, cita in prova Malherbe, che aveva uno spiacevole vizio di loquela; Leibnitz, che essendo filosofo, adunò sessantamila ducati ; Turenna, che era balbo e alzava di volta in volta a spalla parlando; Bossuet, che si turbò d'improvviso, udendo che dovea subire l'operazione della pietra; Montesquieu, perchè sul finire della vita divenne cieco; Cuvier, per esser morto di una affezione de' centri nervosi; Talleyrand, che aveva un piè torto; Napoleone, che era curvo di spalle.

A mio avviso, i disordini che sono frequenti compagni del genio, argomentano cosi poco che il genio sia una malatia nervosa, come la pazzia, che è frequente solo in seno alla umana ragione, non argomenta per questo che la ragione stessa sia una specie di pazzia. Non è vero che la pazzia è rara, se pure esiste, nei bruti? Non è vero che la ragione dell'uomo, sollevandosi ad insolita altezza, si rende appunto per questo sdrucciolevole alla pazzia? Non è vero dunque che fra la ragione e la pazzia vi è un vincolo? Ma per questo dovremo concludere che la ragione sia essa stessa una pazzia? perchè vi è quel vincolo, dovremo confonderle insieme? Ciò è impossibile, e troppo chiara risulta la diversità dell'una e dell'altra; onde rimane solo a spiare come la ragione e la pazzia, essendo così diverse, si trovino nondimeno in questa guisa l'una all'altra fatalmente annodate. Così è forse un vincolo anche più stretto fra il genio ed i disordini morali, che inclinano alla pazzia. Ma non può conchiudersi per questo che il genio sia un'alienazione o una nevrosi. La disposizione a disordinare nel pensiero umano, cresce appunto quanto più si eleva e diviene indipendente e libero: e siccome il genio è la stessa umana ragione, che monta ad un'altezza più sublime e direi quasi vertiginosa, così vi crescono intorno i pericoli, vi si fanno più frequenti i disordini. Ma il genio è diverso da questi disordini, tuttochè vi rimanga sovente unito, come la ragione è ben diversa dalla pazzia. Nè questi disordini possono trascorrere all'acciecamento della pazzia, fino che risplenda in mezzo ad essi la sfavillante luce del genio. Questa luce e quell'acciecamento ripugnano fra loro, nè può il genio insanire se non allora che declini o si estingua (l).

Laonde: 1° il genio che, al dire di Kant (2), è una esemplare originalità di mente, non è una malattia, nè la nevrosi imaginata da Moreau di Tours; mentre le nevrosi, non essendo che le communi azioni nervose disordinate, il genio dovrebbe essere la commune intelligenza in disordine, e non sarebbe quindi nè originale (mi si passi la parola), nè esemplare; 2° il genio, fin che risplende come tale, non può imputarsi alienato pe' turbamenti che nella solitaria e inarrivabile elevatezza lo commovono.

(l) Non potrebbe farsi che una eccezione per le monomanie istintive, di cui tutti conoscono l'estrema rarità.

(2) Antropologia. P. I, L. I, § 56.

Questi sfuggevoli pensieri, che le vostre parole stesse mi hanno spirato, singolarmente per questa ragione accoglierete con quel cortese animo, che avete sempre aperto al

Vostro F. BONUCCI.



Al Dott. Verga. (Dall'Archivio per le Malattie Mentali, T. 2).

Risposta di C. LOMBROSO all'On. Dott. BONUCCl.

Dante disse assai bene:

Ognun confusamente un bene apprende
Nel qual s'acqueta l'anima.....




Senonchè dovea soggiugnere, pure, che ogni pensatore, oltre ad un bene, apprende anche un suo modo di parlare, di conchiudere, di ragionare, un sistema insomma, e vi si appiglia, rappiglia ed incrisalida. Amendue, confessiamolo, siamo tocchi di questa pecca, in ciò poi differendo, che l'uno addotta un sistema opposto a quello dell'altro.

Io, e forse erro, credo che l'osservazione e l'esperimento sieno i soli punti di partenza possibili per li studj naturali e ancora più per li psicologi, nei quali ultimi più facilmente ancora che nei primi, i giudizj ponno essere velati e travisati dalle passioni nostre, dalla vanità in specie; perchè noi, che in tutto vogliamo far campeggiare il nostro io, corriamovi troppo pericolo di essere parziali.

Ella invece persino nella fisiologia, persino nella teorica degli imponderabili, ama sostituire la dialettica, in cui il più che svegliato suo ingegno è maravigliosamente robusto.

Sarà difficile, adunque, ad amendue l'intenderci, poichè noi navighiamo per mari troppo diversi e con diverse bandiere. Proviamovici tuttavia, avvegnacchè abbiamo alfine a commune, a terreno neutro, l'amore disinteressato del vero.

Ella parla della tristezza che le invade l'animo all'idea che si possa confondere il genio coll'alienazione. Ecco qui una prova di quanto io le asseriva, di quanto, cioè, i giudizj sieno influenzabili dalle passioni nostre. Nella scienza solo i fatti devono parlare; guai se nei criterj vogliamo introdurre le modificazioni della nostra cenestesi come nei giudizj delle isteriche.

Ma ella con quel fino tatto che la distingue si corregge subito e passa alle ragioni; le quali, se ben parmi, risolvonsi in queste tre:

Siete voi certo che, dati cento genj e cento persone volgari, la pazzia, ovvero quelle modificazioni della sensibilità, ecc:, si riscontrino proprio in quei cento primi e non ne' cento secondi?

Non abusate voi di alcuni fatti parziali, e che solo spiccano, perchè appunto notati in persone illustri, ma che del resto osservansi in tutte le persone anche volgari?

Non contate come pazzi uomini che lo divennero soltanto negli ultimi momenti della vita?

Questi argomenti e queste objezioni sono serie davvero; ma qui mi è d'uopo avvertire che ella, egregio prof. Bonucci, per colpa certo non sua, giudica del lavoro mio da un solo brano, anzi da un estratto di un brano. Nel mio lavoro infatti, con una minutezza di dettagli, che fu giudicata anzi da non pochi soverchia, io m'era dato attorno appunto a prevenire la sua objezione, ed ora ben godo di aver persistito con tenacia forse irriverente nell'adottato sistema.

Io dimostrava appunto che certi grandi uomini, come Cardano, Tasso, Lenau, Swift, ed avrei potuto aggiugnere ora Foe, Nerval e Techner, non furono alienati negli ultimi loro giorni soltanto, ma in tutta la loro vita, ma fino dalla prima infanzia (vedi cap. III, pag. 17 fino a pag. 31); e dimostrava come essi avessero parenti e figli alienati od epilettici, ecc.

Che se avessi voluto scendere ad ulteriori dettagli saccheggiando le riviste e le biografie alla rinfusa, come il Moreau, io avrei potuto, e nol feci per prudenza, concludere proprio negativamente alla objezione sua; vale a dire che, su cento uomini di genio, la follia, l'epilessia ed il suicidio sono assai più frequenti che su cento uomini volgari.

Non ho che a presentarle la seguente funerea lista di individui divenuti maniaci o suicidi, fra i letterati della Germania di questi ultimi anni.

Uhliche, poeta, moriva testè lipemaniaco.

Holderlin, poeta, fu pazzo quasi tutta la vita.

Wetzel intitolava le sue opere: Opera Dei Vezelii.

Leitzmann, che scrisse il Diario del melancolico, si uccise in un accesso di melancolia nel 1835.

Similmente morivano l'autore del Masaniello, il Fischer e il Raimund, ed Enlt v. Burg e Welthum e Kuh, l'amico di Mendelsohn, e Kleist che uccise sè e la propria amante, e Mailath che s'annegò colla sorella, cui aveva dedicato il suo libro appunto sul suicidio.

Fra le donne la Gunderode, la Stiplitz, la Bracmann, la Landon finirono pazze (Schilling. Psychiatr. Briefe, p. 488, 1863).

In Francia, nota F. Martini, morirono pazzi Arm. Berthet, Moril1, Dabellay, Du Boys, Bataille, giovani e originali poeti (Tra uno zigaro e l'altro, pag. 194).

Ella già sa come vissero e finirono in Inghilterra Clarke e Sonthey e Clarey e Collins.

L'Hoffmann, quel singolare poeta, disegnatore, musico, i cui disegni finivano in caricature, i racconti in stravaganze, la musica in accozzaglia di suoni, ma che pure fu il creatore della poesia fantastica, era un bevone; e già molti anni prima della sua morte scriveva nel suo giornale: "Perchè nella veglia e nel sonno i miei pensieri corrono sempre, mio malgrado, al triste tema della demenza; pare che le idee disordinate sgorghino dalla mente mia come il sangue dalle vene spezzate." Egli che era così sensibile alle variazioni atmosferiche, da costruirsi colla propria sensazione subjettiva una scala esattamente parallela a quella delle meteore: ch'egli fu per molti anni soggetto ad un vero delirio di persecuzione, con allucinazione in cui le fantasie delle sue novelle si trasformavano in realtà.

Qual prova più recente e precisa dell'esistenza dei pazzi di genio? - Ve ne è una più fresca.

Or ora il Costanzo nella sua operetta della Follia Anomala (1876 Palermo) ce ne rivela due altri esempi altrettanto spiccati e parlanti in due suoi celebri compaesani. "Il famoso anatomico Foderà dichiarava spesso, di poter fornir pane a due cento mila uomini con un solo semplicissimo forno, e di potere sconfiggere qualunque esercito, ammontasse pure alla cifra di un milione, con soli quaranta soldati. Quest'uomo, intorno ai cinquant'anni brucia di amore per una ragazza che sta di rimpetto alla casa ove egli abita, e come mezzo efficace a farsi riamare, apre il balcone e le si presenta tutto ignudo. Un bel giorno trovandosi in istrada, guarda estatico la graziosa giovanetta, la quale per togliersi di addosso quella noja, gli versa sul capo un vaso tutto pieno d'immondezze. Ma credete forse che l'amante se ne fosse indispettito? al contrario. Crede quell'atto una manifestazione amorosa, e tutto imbrattato e tutto pieno di gioia se ne torna a casa. In un cortile vede un pollo che somiglia molto alla sua amata, ne fa subito acquisto, e lo colma di baci e carezze: a questo animale è lecito tutto; sporcar libri, mobili ed abiti ed anche appollajarsi sul letto. Testè viveva un nostro celebre anatomico, che rompeva spesso in veri accessi maniaci, e la di cui vita non fu altro che un continuo delirio di persecuzione".

Pei molti altri io la rimanderei al lavoro citato.

Ma v'ha qualcosa di più grave ancora e ch'io esposi al capitolo II. Gli è che quasi tutti li uomini di genio, che non furono alienati, ci confessano ch'essi lo divenivano quasi in quel tal momento dell'estro creatore, nel quale cioè più opererebbe quella che ella chiama, con vocaboli più leggiadri, altitudine sublime dello spirito loro; essi confessano essere presi allora come da una dolcissima febbre, nella quale il pensiero loro diviene involontariamente e straordinariamente attivo e fecondo, e ben differente da quello ch'era prima.

Dante l'avea espresso in quei versi messi in bocca del suo compaesano:

Io mi son un che quando
Amore spira noto ed in quel modo
Che detta dentro va significando.


Hoffman ripetea agli amici: "Per comporre io mi metto al piano e chiudo gli occhi, e copio ciò che mi sento dettare dal di fuori."

"Lo scrivere, dice Foscolo, dipende da certa amabile febbre di mente, ed uno non l'ha quando vuole."

Lo stesso ripete lo spiritualista Maine de Biran, meravigliato come debba esser involontaria appunto la facoltà più spirituale che ci sia nell'uomo (Memorie, l855).

Ora, tutti questi fatti non si riscontrarono mai nelle persone volgari: nelle quali quando questi casi occorrono noi diamo lor nome di isterismo, di ipocondrie e di melancolie.

Tutto ciò considerato, io non dico il genio essere un'alienazione, ma uno squilibrio eccessivo dell'attività cerebrale e della sensibilità, che si manifesta con fenomeni fisici, che è compensato da difetti in altre attività organiche e in altri lati della sensibilità stessa, e questo mi spiega il potersi dare e così frequentemente la coincidenza del genio colla pazzia.

Venero Kant, ma confesso che quella sua definizione (essere il genio un esemplare originalità della mente) mi par un assai oscuro sinonimo, certo meno chiaro della citata definizione di Göthe, che quanto a genio se n'intendeva al pari di Kant, il quale, sia detto fra parentesi, aveva una sorella alienata.

Io ho tentato nel rispondere di parlare il più che potea empiricamente; voglia ella imitarmi; ella mi trovi cento genj che non furono mai alienati, o solo nell'ultime ore, e che non ebbero alcun parente alienato, e che non ebbero mai squilibrio in più od in meno della sensibilità, ed io allora pel primo getterò ai suoi piedi le fragili mie armi.

Seconda lettera di BONUCCI al prof. LOMBROSO.

Ella, replicando cortesemente alla mia lettera intorno al Genio e alla pazzia (Archiv. Ital., t.2. p.5), comincia dal notare la differenza che ci divide, la quale a suo giudizio consiste in ciò che, mentre ella pone i fatti, per fondamento delle scienze naturali e psicologiche, io vi pongo invece la dialettica. Permetta quindi che io rettifichi a lei questo primo fatto, mentre ho io pure assolutamente per fermo che quelle scienze non possono avere altro fondamento se non i fatti, fuori dei quali non saprei nè pure imaginare la costituzione delle medesime. Le nostre differenze io credo che nascano in altra parte, nascano cioè nell'intendere il significato dei fatti, significato che a comporre alcuna scienza tutti sono obbligati di ricercarvi, anche allora che si prende l'aria di non esporre che i fatti nudamente e di parlare soltanto a nome loro. Se ciò fosse possibile chi non accetterebbe questa facile e sicura parte di lasciar parlare i fatti, cioè di lasciar parlare il vero da sè medesimo?

Ma, scendendo tosto alla nostra questione, io dovrei un poco rammaricarmi con lei, perchè fa apparire nella sua lettera che io abbia ragionato della tristezza che m'invade a sentire il genio pareggiato alla pazzia, come di una prova contro questa dottrina. E ciò non è vero, mentre io non tocco di quella tristezza se non per introdurmi a trattare l'argomento. Questo sarebbe un offendere i fatti già la seconda volta, che sconverrebbe principalmente a chi si dichiara di proteggerli contro le imaginate violenze di altri.

Del rimanente (abbandonando volentieri queste prime discrepanze) mi compiaccio nel vedere che non è poi grave la differenza che ci divide, e me ne compiaccio per la stima che professo al suo ingegno e alla sua dottrina; la quale mentre credo meritevole di ogni riguardo, auguro che serbi simili riguardi ad altre dottrine non del tutto conformi; avendo in mente che la scienza si compone per li sforzi communi della umanità, e che i suoi definitivi responsi non si pronunzieranno ai nostri giorni

.

Dico la nostra diversità non esser grave. Mira unica del mio scritto era di mostrare che il genio per sè stesso non è pazzia nè malattia di sorta. Ed ella nella parte più sostanziale lo conferma scrivendo "io non dico il genio essere un'alienazione." (Ivi, p. 171).

Fermato che è questo punto, aggiungerò avere io stesso scritto, appunto come lei, che credo negli uomini di genio più frequenti i disordini nervosi e morali avvertendo però (mentre pongo ogni cura di non trascendere i limiti, nei quali i fatti si estendono) che tale opinione, molto verosimile, non è con rigore dimostrata. Convengo (e chi non lo riconosce?) che le produzioni del genio sogliono essere accompagnate da concitazione cerebrale, ma questa concitazione, che trasporta l'uomo sopra sè stesso e sparge lampi di purissima luce, può mai pareggiarsi al cieco imperversare della mania e al vario sbizzarrire delle altre forme morbose?

Ella infine mi invita a trovar cento genj "che non ebbero mai squilibrio in più od in meno della sensilità". Potrei io domandare a lei se le riuscisse di trovare anche fra tutta la gente più commune cento persone la cui sensibilità non abbia mai sofferto "squilibrio in più o in meno" e non credo che potrebbe rispondere con dimostrazione affermativa. D' altra parte la mia fatica sarebbe ben più grave, poichè a raccogliere quel numero di genj non mi basterebbe forse di riandare tutta la storia dell'umanità, e ricercarvi alcune relazioni che la storia non riferisce. Ma io posso esimermi da questa impresa quando non scorgo più fra noi la differenza che dovrebbe muoverla, avendo ella riconosciuta la diversità che è fra il genio e la pazzia. E poteva questa diversità essere disconosciuta nella patria di Alessandro Manzoni?

Da ultimo, se bene le conseguenze che ella trae dai fatti differiscano veramente spesso dalle conseguenze che io ne traggo, mi è grato esprimerle che applaudisco di buon animo a' suoi studj e confido che la vivacità della sua mente, la ricchezza delle sue dottrine e il fervore delle sue persuasioni contribuiranno con molto valore a scoprire più chiaramente l'aspetto del vero, in qualunque parte esso si nasconda.


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