IV
Esempi di geni alienati: Harringhton, Ampère, Comte, Schuhmann, Tasso, Cardano, Swift, Newton, Rousseau, Lenau, Széckenyi.

Tante e tante analogie tra l'alienazione ed il genio, se non dimostrano punto che l'uno e l'altro si debbano confondere insieme, ci apprendono tuttavia come e perchè l'uno non sempre escluda l'esistenza dell'altro in un medesimo soggetto.

E, davvero, senza notare i molti ingegni, che furono allucinati per qualche momento della loro vita, come Andral, Cellini, Goëthe, o divennero dementi negli ultimi giorni della loro gloriosa carriera, come Vico, non sono pochi gli uomini di ingegno grandissimo, che nello stesso tempo allucinati e monomaniaci si dimostrarono. Eccone degli esempî:

1.° Harrington fantasticava che i pensieri gli fuggissero di bocca sotto forma di api e d'uccelli e si accovacciava in una capanna armato di scopa per disperderli.

Haller si credeva perseguitato dagli uomini, dannato da Dio per la bruttezza dell'anima sua e per le opere eretiche, nè poteva sedare l'eccessivo terrore, che con enormi dosi d'oppio e col colloquio dei preti (Tagebuch, 1787, Berna).

Ampère abbruciò un trattato sull'Avvenire della chimica, credendo averlo scritto per suggestione satanica.

Edgar Poè visse dipsomaniaco e morì sotto un accesso di alcoolismo.

Nei nostri ultimi tempi impazzirono Farini, Brougham, Southey, Gounod, Govone, Ricci, Gutzkow, Monze, Fourcroy, Lamb, Loyd, Cooper, Lessmann, Collins, Nerval, Techner, Holderlin, Von der West, Gallo, Spedalieri, Bellingeri, Salieri.

Mozart fissava che gl'Italiani lo volessero avvelenare.

Rossini, che aveva un cugino idiota tuttora vivente e appassionato per la musica, in un'epoca della sua vita, dopo il 48, s'era messo in capo di essere all'estremo della miseria, così da dover chiedere la limosina, eppure aveva venduto da poco un palazzo.

Clarck, dopo aver letto qualche episodio storico, s'imaginava di esserne stato spettatore od attore. Così Blacke e Bannecker credeano vedere veramente le fantasticate imagini che riproducevano col pennello. Un celebre professore di P.... non rare volte andò soggetto a questa illusione, e si credette convertito in Confucio, in Papirio, in Tamerlano.

2.° Schuhmann [sic], il precursore della musica dell'avvenire, nato da ricchi parenti, non incontra ostacolo per la coltura della prediletta sua arte, trova in Clara Vicek un'amabile e degna compagna; eppure a 23 anni è in preda a lipemania; a 46 anni è perseguitato dalle tavole parlanti che sanno tutto; egli vede toni che lo perseguitano e si sviluppano in accordi e fino in composizioni complete. Beethoven e Mendelssohn gli dettano note dalla tomba -- nel 1854 si getta nel fiume; salvato, more a Bonn -- e la sezione rivela osteofiti, ispessimento degli inviluppi cranici, atrofia del cervello (1).

(1) Schuhmanns. Biographie. - V. Wasielewski. - Dresden,1858.

3.° Il grande Aug. Comte, l'iniziatore della filosofia positiva, fu curato per dieci anni da Esquirol; guariva, ma per ripudiare, senza veruna causa, la moglie che lo aveva salvato; più tardi si credette apostolo e sacerdote d'una religione materialistica, - egli che voleva distruggere il sacerdozio!! Nelle opere sue, in mezzo a stupende elucubrazioni, trovansi spesso delle vere idee maniache, - come, per es., la profezia che un giorno la donna si feconderà senza l'aiuto del maschio!! (1)

(1) Littré, A. Comte et la Phil. posit., 1863.

4.° Cardano, cui i contemporanei dissero più grande degli uomini e più stolto dei bimbi, Cardano, che primo osava criticare Galeno, escludere il foco dagli elementi e chiamare matti gli stregoni ed i santi, questo grande Cardano era figlio, cugino e padre di pazzi, e pazzo egli stesso tutta la vita " - Balbuziente, impotente, con poca memoria, senza sapienza, scrive egli stesso, fino da bimbo io soffersi allucinazioni ipnofantastiche;" ora è un gallo che gli parla con voce umana, ora il Tartaro che gli si rimescola innanzi pieno di ossa - e qualunque cosa imaginasse poteva vedere innanzi a sé come fosse vera e reale. Dai 19 fino ai 26 anni un genio simile a quello, che già protesse il padre suo, gli suggeriva i consulti, gli rivelava il futuro. Né dopo i 26 anni egli fu abbandonato dagli aiuti soprannaturali, anzi in quel torno, una ricetta, che non era troppo ben adatta, si dimenticò delle leggi di gravità per salire fino al suo tavolo ad avvertirlo dell'errore (1).

Ipocondriaco, sogna di aver tutti i mali che legge ed osserva, palpitazione, sitofobia, flusso di ventre, enuresi, podagra, ernia, che spaiono senza cura o con qualche preghiera alla B. Vergine. Ora le carni gli putono di zolfo, di cere spente, ora gli compaiono fiamme e fantasime in mezzo a violenti terremoti, mentre di nulla s'accorgono i suoi famigliari.

(1) De Vita propria, cap. 45.

Perseguitato, spiato da tutti i governi, da una selva compatta di nemici, che però non conosce né di nome, nè di vista, e che, dic'ei medesimo, condannarono, solo per fargli onta e dispetto, l'amatissimo figlio, egli si crede perfino avvelenato dai professori dell'Università di Pavia, che l'avrebbero a bella posta a ciò convitato; che se restò immune dalle loro mene lo deve all'aiuto di S. Martino e della Vergine, egli che aveva prevenuto, audacemente, in teologia, Dupuis e Renan.

Egli medesimo si confessa proclive a tutti i vizi, al vino, al gioco, alla menzogna, alla libidine, all' invidia, e nota che quattro volte, nel plenilunio, si sorprese in vera alienazione mentale.

Era di così pervertita sensibilità, che non istava bene, se non sotto lo stimolo di qualche dolore fisico, e in mancanza di veri, ei se ne procurava artificialmente, mordendosi le labbra e le braccia fino a sangue. "Cause di dolore, se non ne avea, io ne cercava per goder del piacere della cessazione del dolore, e perchè mi accorsi che quando non soffro, mi si sorprende un impeto così grave e molesto, che è peggiore d'ogni dolore." Il che giova assai a spiegarci certe strane torture che si impongono voluttuosamente molti alienati (1).

Egli crede, infine, così ciecamente ai sogni rivelatori, che stampa l'opera bizzarra De Somniis, e dirige i consulti medici, conchiude il suo matrimonio ed inizia le opere sue, per es, quella sulla Varietà delle cose e Sulle Febbri, e le varia a seconda d'un dato sogno (2).

(1) Anche Byron diceva che le febbri intermittenti gli tornavano piacevoli per la sensazione gradevole che seguiva al cessare del dolore.

(2) "Un dì parvemi udire in sogno delle armonie soavissime - mi desto e mi trovo soluto il problema Sulle Febbri; perchè alcune siano letali altre no, intorno a cui invano aveva sudato per 25 anni. De Somniis, c. IV. In sogno fui avvisato di scrivere questo libro, diviso appunto in 21 parti, e tanta era la voluttà che provava nella continuità dello stato, nelle sottigliezze di quei ragionamenti, che però non m'ebbi mai " (De Subtilitate, lib. XVIII, p. 915).

Impotente fino a 34 anni, un sogno gli restituisce la maschile virtù, e gli addita, nè troppo felicemente, l'oggetto delle sue cure, la sua futura moglie, una figlia di scherano, che prima del sogno ei non ebbe, dice, non che ricordata, nè meno veduta! - Che più, se spingeva la sua sciagurata follìa a tanto, da regolare dietro i sogni suoi i consulti medici, come vanta egli stesso aver usato pel figlio di Borromeo? - Noi potremmo ancora citare degli esempi ora ridevoli, ora strani ed ora terribili, ma per dirne uno che insieme raccolgano tutti i caratteri, diremo del suo sogno della gemma.

Era il maggio 1560, cinquantaduesimo della sua vita. Il figlio gli era stato dannato pubblicamente per veneficio; niun' altra sventura poteva colpire più al vivo l'anima, già sì poco temperata, di Cardano; egli, che l'amava per tenerezza paterna, come ne sono prova quei versi sublimi De Morte filii, in cui il gelido lutto della vera passione ha un'imagine sì tristamente perfetta, l'amava, anche, per ambizione, sperandone un nipote che lo somigliasse; infine, in quella condanna, vieppiù acceso dalla sventura nelle sue idee lipemaniache, credeva vedere il dito di quelli che si erano congiurati contro di lui. "Balestrato in tal guisa, invano io cercava distrarmi, narra egli stesso, con lo studio, co 'l giuoco, e con morsi e battiture alle braccia ed alle gambe (noi conosciamo questo antico suo conforto); era la terza notte ch'io non potea prender sonno, e due ore appena mancavano all'alba, e vedendo ch'io avrei dovuto morire od impazzire, pregava Dio che volesse togliermi affatto da questa vita. Ed ecco improvviso mi prende il sonno, e ad un tempo sento ravvicinarsi persona di cui le tenebre nascondeanmi le forme, e dicea: - Che ti duole del figlio...? La pietra che tieni appesa al collo, portala alla bocca, e sin che ve la terrai non ti sovverrà del figliolo. - Desto dal sogno, pensava qual mai rapporto poteva esservi tra lo smeraldo e l'oblivione, ma poichè null' altra via mi restava, e ricordandomi le parole sacre Credidit, et reputatum ei est ad justitiam, abboccai lo smeraldo; ed ecco che fuori d'ogni aspettazione ogni cosa che ricordasse il figlio svaniva dalla memoria, così allora che di nuovo ricaddi nel sonno, come per tutto un anno e mezzo da poi; solo quando mangiando, o professando in publico non poteva tenere la gemma alla bocca, io ritornava in braccio al primo dolore" (De Vita, XLIII. De Somniis, IV). - Singolare cura questa, che piglia pretesto dal bisticcio di gioia, preso per allegrezza e per pietra preziosa; e che, a dire il vero, non avrebbe avuto bisogno della rivelazione d'un genio, avendo egli stesso, nelle opere sue, già attribuito appunto per l'assurdo nesso etimologico, tale virtù consolatrice a quelle pietre (1).

Da ultimo come Rousseau, come Haller agli estremi giorni dell' angustiata carriera scrive la propria vita, predice il giorno preciso della desiderata morte, e in quel giorno l'incontra o forse se la procura, onde non trovarsi poi in fallo.

(1) "Le gemme nel sogno sono simboliche di figli, di cosa insperata, di letizia anche (vedi bisticcio maniaco), perchè in italiano gioire vuol dir godere " (De Somniis. cap. 21. Id. De Subtilitate, p. 338).

5.° Che diremo di Tasso? - Per chi non conoscesse l'opera di Verga sulla Lipemania del Tasso, basti questa lettera: "Sempre sono e tanto melancolico, che sono reputato matto dagli altri e da me stesso quando non possendo tenere celati i pensieri noiosi fo lunghi soliloqui. I miei disturbi sono umani e diabolici. Gli umani sono grida di uomini e particolarmente di donne, risa e sono d'animali. - I diabolici sono canti, ecc. Quando prendo in mano il libro per istudiare sonanmi all'orecchio voci, in cui distinguonsi i nomi di Paolo Fulvio" (1739, II, 69). Nel Messaggiero, che più tardi gli s'incarnò in una vera allucinazione, avea già ripetutamente confessato d'essere folle, ed accagionatone i vini e gli amori. Io credo, quindi, che egli copiasse sè stesso nel Tirsi dell'Aminta, ed in quella stupenda ottava tanto prediletta da quell'altro lipemaniaco ch'era Rousseau:

Vivrò fra i miei tormenti e fra le cure,
Mie giuste furie, forsennato, errante;
Paventerò l'ombre solinghe e scure
Che il primo error mi recheranno avante;
E del sol che scoprì le mie sventure
A schivo ed in orror avrò il sembiante:
Temerò me medesmo, e da me stesso
Sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.
(XII,77)

Un giorno, certo sotto un'allucinazione, od in un accesso furioso, trasse fuori il coltello e fece per ferire un servo, che entrava nella camera ducale; fu incarcerato, dice l'ambasciatore toscano, più per guarirlo che per punirlo.

Il poveretto cangiava di paesi, di nazioni, ma sempre le tristi imagini lo seguivano, ed insieme I rimorsi senza causa, i sospetti di veleno ed i terrori dell'inferno, per le sue eresie, delle quali in tre lettere s'accusava al troppo benigno inquisitore (133, 123, 89).

"Sempre sono turbato da molesti pensieri nojosi, confida egli al medico Cavallaro, e da molte imaginazioni e molte fantasme; v'è congiunta una grande debolezza di memoria; perciò prego vostra signoria che nelle pillole che ordinerà per me, ecc., pensi di confortare la memoria. - Sono frenetico, scrive a Gonzaga, e mi maraviglio che finora non le sieno state scritte le cose che dico fra me stesso, e gli onori ed i favori, e le grazie degli uomini, imperadori e re, i quali mi vo fingendo e formando e riformando a mia voglia."

Quella curiosa lettera ci rivela come le imagini tristi e dolorose si alternassero in lui (a guisa dei colori subiettivi nella reazione retinica), colle ilari e liete; se non che le tristi aveano, poi, il sopravvento, e bene l'espresse egli in quel sonetto:

Lasso che questa, al mio pensier, figura
Ora torbide, or meste, or liete e chiare,
Larve, colle quai spesso, o, che mi pare,
Inerme ho pugna, perigliosa e dura.


Opra è questa d'incanto - o mia paura
È la mia maga.

In questi ultimi incisi travedesi il dubbio, cui la potente intelligenza - a lungo esercitata alla vista del vero - suscitava in mezzo alle allucinazioni del delirio. - Ma ahi! quel dubbio durava troppo poco.

Di lì a pochi giorni ei scriveva a Cattaneo: "Io qua ho bisogno di esercizio più che di medico, perchè il mio male è per arte magica. Del folletto voglio scriverle alcuna cosa. Il ladroncello mi ha rubato molti scudi, e mi mette tutti, sottosopra, i libri, apre le casse, ruba le chiavi, ch'io non me ne posso guardare; - sono infelice in ogni tempo, ma più la notte, nè so che il mio male sia da frenesia." In altra lettera: "Quando sono sveglio sembrami vedere fochi scintillanti nell'aria; alcune volte gli occhi miei sono così infiammati, che temo perdere la vista. Altre volte sento fracassi spaventevoli, de' fischi, de' tintinnii, de' suoni di campane e dei tremiti quasi tramandati, da orologi che si concertino e battano l'ore. Dormendo, parmi che un cavallo precipiti su di me e mi rovesci a terra, o m'imagino di essere coperto d'animali immondi. Tutte le mie articolazioni se ne risentono, la mia testa si fa pesante, ed in mezzo a tanti dolori e paure ora m'appare l'imagine della Vergine giovane e bella col suo figlio coronato di un'iride." - Più tardi escito dall'Ospitale, narra allo stesso Cattaneo, "come il folletto portò via lettere ove di lui si parlava, e questo è un di quei miracoli, che ho veduto io stesso all'Ospitale, laonde sono certo sien fatti da qualche mago e n'ho molti argomenti, e particolarmente d'un pane, toltomi dinnanzi, visibilmente, a tre ore." - Egli ammalato di acuta febbre, risana sotto all'apparizione della Vergine, cui ringrazia con un sonetto - crede, parla e quasi tocca con mano il genio, che spesso arieggiava all'antico Messaggiero, e gli suggeriva pensieri ch'egli crede non aver, punto, concepito dapprima.

6.° Swift, l'inventore dell'ironia e dell'umorismo, avea già da giovane predetto, che sarebbe divenuto pazzo; passeggiando in un giardino con Young e vedendo un olmo quasi spoglio di fronde sulla cima: "Io comincerò, disse, come quello, a morire dalla testa. "Orgoglioso, fino al delirio, coi grandi, - pur si mescolava nelle più fecciose bettole cogli scozzoni. - Ecclesiastico, scriveva libri irreligiosi, sicchè si disse di lui, che prima di farlo vescovo, sarebbe convenuto farlo battezzare,

Vertiginosus, surdus, inops, male gratus amicis,

com'egli stesso si definisce, voi lo vedete struggersi di dolore per la morte della sua dilettissima Stella, eppure in quegli stessi giorni scrivere le lettere burlesche Sulle serve. Pochi mesi dappoi, perde la memoria, e conserva soltanto la mordace loquacità; - poi diviene misantropo, sta un anno senza parlare, senza leggere, senza conoscere alcuno, camminando dieci ore al giorno, e mangiando sempre in piedi e rifiutando il cibo e dando in accessi furiosi se qualcuno entrasse nella sua stanza. - Collo svilupparsi di alcuni furoncoli [sic], parve migliorare, e più fiate fu sentito allora ripetere: Sono pazzo, ma breve fu quel lucido intervallo; - ed egli ricadde nello stupore della demenza, benchè qualche volta anche in lui paresse l'ironia sopravvivere alla ragione, e, quasi alla vita. Facendosi infatti, nel 1742, luminarie in onore suo, interruppe i lunghi silenzi maniaci per dire: Son pazzi, farebbero meglio a non far altro. - Nel 1745 moriva in completa demenza, e nel suo testamento, scritto molti anni prima, lasciava 11,000 st. a favore dei matti, e questo epitafio che riassume le crudeli torture dell'animo suo: Qui giace Swift, qui ove il fiero sdegno più non gli lacera il cuore...

7.° Newton, di cui bene fu scritto, vincesse colla mente il genere umano, venne, nella vecchiezza, colpito da una vera malattia mentale, benchè di grado assai più lieve delle precedenti; durante questa è assai probabile scrivesse quelle opere della Cronologia, dell'Apocalisse e delle Lettere a Benthley, così diverse per merito e per serietà da quelle della sua giovanezza.

Nel 1693, dopo il secondo incendio della sua casa, e dopo abusi di studio, tenne discorsi incoerenti, bizzarri, coll'arcivescovo, sì che veniva ritirato, e gelosamente curato dagli amici. In quei giorni il timido Newton, che in carrozza soleva, prima, afferrarsi con ambe le mani, ai ganci della vettura, fu sentito bravare Villars, cui dicea volere combattere nelle Cevenne. Alcun tempo dopo egli dettava queste due lettere, che nello stile loro confuso ed oscuro, attestano, doppiamente, come anche più tardi, male fosse ristabilito dal delirio di persecuzione. - "Avendo, scrive a Locke, creduto che mi voleste impastoiare (embroilléd) con femmine e con altri vezzi, e avendo sentito che stavate male, m'augurai la vostra morte. Io vi chiedo scusa per avere avuto questo pensiero e per avere presentato come immorale l'opera vostra sulle idee e quella che pubblicherete. Vi avea creduto Hobbista. Vi chiedo scusa di aver detto e pensato che abbiate voluto vendermi un ufficio ed imbrogliarmi -Vostro sfortunato Newton." - Più chiaramente scrive a Pepy. - "L'inverno essendo vicino al foco, ho finito per guastare le mie abitudini; un'epidemia poi portò questo turbamento al punto che da quindici giorni non dormii un'ora, e nemmeno un secondo da cinque giorni (Vedi il matematico). Mi ricordo che vi scrissi, ma non so cosa; se mi mandate il passo ve lo spiegherò." (Biot. Mélanges. I, p. 273, Arago, IV, p. 337). In quell'epoca, a chi gli rivolgesse domande su qualche punto delle sue opere, rispondeva: "Indirizzatevi a Moivre; egli ne sa, in proposito, più di me."

8.° Chi, senza frequentare un Manicomio, voglia formarsi una completa idea delle torture interne d'un lipemaniaco, non ha che a percorrere le opere di Rousseau, le ultime in ispecie, cioè le Confessioni, i Dialoghi e gli Strambotti (Réveries) del passeggiero.

"Io ho, scrive egli nelle sue Confessioni, passioni ardentissime; mentre queste mi agitano, non conosco più riguardi, non amore; non vedo l'oggetto; tutto ciò dura un istante, e l'istante che segue mi accascia, mi prostra. - Un foglio da disegno, ch'io vegga, mi tenta più che se vedessi del denaro, con cui pure potrei comperarlo! Io vedo una cosa... essa mi tenta; vedo il modo d'acquistarla, ma questo no, non mi tenta. - Ancora adesso s'io vedo qualche quisquiglia, che mi piaccia, preferisco il prenderla, al domandarla in dono." - Ecco la vera differenza dal cleptomano al ladro; il primo ruba per istinto, per rubare, il secondo per interesse, per acquistare; il primo è sedotto da qualunque oggetto che lo colpisca; il secondo da ciò che rappresenti valore. "Dominato dai sensi, egli continua, non seppi resistervi mai; il piacere più piccolo, ma presente agli occhi, mi seduce più che tutte le gioie del paradiso." - Infatti per il gusto di una cena fratesca (del padre Pontierre) ei si faceva apostata; per un lieve ribrezzo abbandonava, crudelmente, un amico epilettico sulla via.

Nè le passioni, soltanto, erano in lui morbose e violenti, ma l'intelletto, pur anco, era nella sua compage e fino dai primi anni guasto ed alterato, e ne siano prova queste confessioni:

"La mia imaginazione non è montata più allegra che quando sto male davvero. La mia testa non sa abbellire le cose veramente piacevoli che m'accadono; ma sì bene le imaginarie. - Se voglio dipingere bene la primavera, bisogna che sia d'inverno."- Ciò ne spiega come quell'altro matto che era Swift scrivesse le più giocose sue lettere durante il lutto di Stella - e ciò spiega, come riuscissero l'uno e l'altro sì bene nelle dipinture dell'assurdo.

"I mali reali han per me poca presa, più mi atterriscono quelli che mi imagino avere; m'adatto a quei che provo, non a quei che temo." Ecco, diremo noi, perchè alcuni s'uccidano per timore di morire.

"Alle prime letture di libri di medicina egli s'imagina di subire tutti i mali che vi trova descritti e si maraviglia non che d'essere sano, d'essere vivo (VI), e finisce per credere di avere un polipo al cuore. - Era, confessa egli stesso, una bizzarria, uno sfogo d'una oziosa ed esagerata sensibilità che non avea migliore indirizzo.

"V'hanno tempi, in cui sono sì poco simile a me stesso, che mi si prenderebbe per uomo di carattere tutto opposto. Prendetemi nella calma, sono l'indolenza e la timidità stessa; e non so esprimere nulla dei miei pensieri; - se io, invece, mi passiono, subito trovo ciò che ho da dire; le idee circolano, imbarazzate, lentamente, sordamente, e non si presentano, mai, che dopo l'occasione. I piani più bizzarri (Confess. 3.ª, 129), più matti e fanciulleschi, mi seducono, mi piacciono, mi paiono verosimili. Di fatti a 18 anni, si mette, con un altro amico, in viaggio con una fontanella di bronzo, e crede poter vivere ed arricchire facendola vedere ai contadini."

E così, questo infelice percorre la serie di quasi tutte le arti dalle più nobili alle più vili, da quelle dell'apostata a denaro, a quelle dell'oriolaio, del cerretano, del maestro di musica, del pittore, dell'incisore, del servo e del segretario diplomatico in erba, e nella letteratura e nelle scienze si abbarbica alla medicina, alla musica, alla botanica, alla teologia, alla pedagogia. - L'abuso del lavoro intellettuale, tanto più dannoso in un pensatore, in cui le idee svolgeansi lente ed imbarazzate, e lo stimolo sempre crescente dell'ambizione, a poco a poco trasformano l'ipocondriaco in melancolico e per ultimo, in maniaco. "Le mie agitazioni, dic'egli, le mie ire, mi commossero, sì che durai in delirio dieci anni e non sono calmo che ora!" - Calmo!? Quando il morbo incronichito non gli lasciava omai distinguere più, nemmeno a brevi lampi, la parte reale dei suoi dolori dalla imaginaria.

E infatti ei si ritira dal gran mondo, in cui anche prima s'era trovato a disagio, e fugge nella solitudine; ma anche nella campagna il mondo della città lo perseguita; i vapori dell'amor proprio, i tumulti del mondo, appannano la freschezza della natura. - Ha un bel ravvolgersi nei boschi, la folla ve lo segue e persegue (Réveries, 494). E qui ricordiamo ancora l'ottava del Tasso:

..... e da me stesso
Sempre fuggendo avrò me sempre appresso.

cui certo Rousseau alludeva quando asseriva a Corancez, che Tasso era stato il suo profeta. Più tardi, "crede che la Prussia, l'Inghilterra, la Francia, i Re, le donne, i preti, gli uomini, - irritati da alcune frasi, contenute nelle sue opere, gli abbiano mosso contro una terribile guerra, cogli effetti od apparenze della quale, egli spiega il malessere interno che prova."

"Nel raffinamento della loro crudeltà, i suoi nemici hanno dimenticato una cosa sola, di graduargli i dolori, onde potesse tutti, a sorso a sorso provarli" (Réveries, p. 371). Il capo d'opera però dell'artificio dei nemici suoi è quello di torturarlo, colmandolo di benefizi e di lodi.

Che più "essi giunsero perfino a corrompere i rivenditori di legumi, onde gli cedessero più a buon mercato i loro commestibili! e gliene fornissero i migliori! - Certo, con ciò, quei suoi nemici intendevano far risaltare la sua ignavia e la loro bontà!" (Dialogues, I)

Nella sua dimora a Londra la sua melancolia si trasforma in un vero accesso maniaco. - S'imagina che Choiseul lo facesse ricercare per arrestarlo; lascia i denari ed i bauli all'albergo e fugge alla spiaggia pagando gli albergatori con pezzi di cucchiai d'argento; trova i venti contrari alla navigazione, e crede anche ciò un effetto del gran complotto; irritatissimo, arringa dall'alto d'un colle, in cattivo inglese, la folla di Warton che lo ascolta, stupefatta, ed egli [sic] crede, commossa (Dialogues).

Ma, ritornato in Francia, non trova ancora calmati i suoi nemici invisibili, che lo spiano e interpretano male ogni suo atto; se legge un giornale "e' dicono ch'egli cospira, se fiuta una rosa, certo sospettano che studia qualche veleno contro di essi. - Di tutto gli vien fatto colpa; per potere meglio spiarlo essi collocano alla sua porta un rivenditore di quadri - e fanno che la porta di casa non si possa socchiudere - niuno entra in sua casa, che prima, non sia stato sobillato contro lui. - Essi corrompono contro di lui il caffettiere, il parrucchiere, l'oste, ecc.; il lucidatore di scarpe non ha più lucido quando egli lo desidera; il pontoniere della Senna non ha barche quando egli vuol traghettare. Egli chiede di esser messo in prigione, e... fin ciò gli vien rifiutato. Per poter poi torgli l'unica arma, la stampa, arrestano un libraio, ch'ei non conosce, e lo mettono alla Bastiglia."

"L'uso di bruciare un pagliaccio di carte, a mezza quaresima, era abolito. - Lo ristabiliscono certo per deriderlo e bruciarlo in effigie. - Di fatti le vesti che gli posero addosso s'assomigliavano alle sue!! (Dialogues, II)

Alla campagna s'imbatte in un bambino che gli vezzeggia e sorride, egli si rivolta per rispondergli... ed ecco vede un uomo, che alla trista faccia (notate strano diagnostico) subito riconosce per una delle spie appostate dai suoi nemici.

Sotto l'impressione continua di questo delirio di persecuzione egli scrive i suoi Dialoghi su Rousseau giudicato da Rousseau, in cui per tentare di placare i propri innumerevoli nemici, traccia una pittura, esatta e minuziosa, delle sue allucinazioni.

Per diffondere questa sua difesa, da vero delirante ch'egli era, cominciò a distribuirne una bozza a tutti i passeggieri della strada che alla faccia non paressero ispirati dai nemici suoi. - A tutti i Francesi era indirizzato lo scritto, amanti della giustizia. - Cosa singolare, malgrado e forse per l'intitolazione, non si trovò alcuno, che accettasse, con piacere, lo scritto! anzi molti lo rifiutarono! - Non potendo più oramai fidarsi di altro uomo sulla terra, egli, si indirizza a Dio, precisamente come Pascal, in una lettera assai tenera e famigliare; - e, notate il concetto maniaco, - per fargliela meglio pervenire ed assicurarsi, così, della sua protezione, pone la lettera ed il manoscritto dei Dialogues sotto l'altare di Nostra Donna di Parigi, quasichè il Dio creatore dell'universo, il Dio dei filosofi, stesse rannicchiato sotto la cupola di una cattedrale!!

Dopo tutto ciò, parmi che Voltaire e Corancez non avessero tutto il torto a sentenziare: "che egli era stato matto, e che egli stesso l'avea confessato." Non pochi passi delle Confessions e delle lettere di Grimm accennano, poi, ad altre affezioni, come la paralisi vescicale e la spermatorrea, che assai probabilmente aveano punto di partenza nel midollo, e dovettero, certo, aggravare il delirio melanconico.

9.° Lenau, il più gran lirico della moderna età, finiva, non è molto, nel Manicomio di Dobling una vita, che presentò, fin dalla prima infanzia, un misto di genio e di follia.

Figlio d'un patrizio, superbo e vizioso, e d'una madre melanconica, sensibilissima e ascetica, mostrò, da bimbo, tendenze alla tristezza, alla musica, al misticismo; studiò medicina, diritto, agricoltura, e meglio ancora la musica. - Nel 1831, Kerner notava in lui un alternarsi bizzarro di tristezza e di melancolia, e come alle volte dimorasse, intere notti, solo, nei giardini, suonando il prediletto stromento.

"Io sento, scriveva più tardi alla sorella sua, una gravitazione per la sventura; il demone della pazzia mi folleggia nel cuore; sono matto, a te, sorella, lo dico, che m'amerai, pur sempre, ugualmente. Quel demone presto lo spinge ad andare, quasi senza scopo, in America. - Ne ritorna, - si trova festeggiato, accolto con gioia da tutti, ma l'ipocondria (sono sue parole), ha impiantato nel cuore il suo dente profondo, nulla ci gioverà" (Schurz, Lenau's Werke, I vol., pag. 275).

Quell'infelice cuore si ammala, infatti, davvero, di pericardite, e non ne risana dappoi che imperfettamente.

Dopo d'allora, l'antico amico, il sonno, il solo medico de' suoi mali, non viene più. - Tutte le notti, quel grande infelice è funestato da terribili imagini.

"Si direbbe (ei ripete col frasario dei Manicomi) che il diavolo bandisce caccie entro il mio ventre; vi sento un abbaiare di cani continuo ed una funerea eco di inferno. Senza scherzo c'è da disperarne."

La misantropia, che già notammo in Haller, in Swift, in Cardano, in Rousseau, compare in Lenau, con tutto l'apparato maniaco, nel 1840. Ha paura, vergogna, fastidio degli uomini. La Germania gli prepara archi trionfali, conviti, ed egli fugge via, e senza una causa, gira e rigira da un paese a un altro; prova impazienze ed ire senza causa, sente incapacità al lavoro, come uomo, dic'egli stesso, cui non est fermum sinciput; e l'appetito si fa lunatico come il cervello. Ritorna, con istrano gusto, al misticismo dell'infanzia, vuol studiare i gnostici, rilegge le storie degli stregoni che tanto prediligeva da giovane, beve enormi dosi di caffè e fuma eccessivamente. - È incredibile, ei nota, come ai moti della persona, e specialmente all'accendere o mutare lo zigaro, mi si sviluppino nuove idee. Egli scrive intere notti, gira, viaggia...., combina un matrimonio, progetta grandi lavori e non ne eseguisce nessuno.

Erano gli ultimi guizzi della gran mente; già cominciava il 1844, ed egli si lagnava, sempre più, di cefalalgie, di sudori continui, di estrema debolezza. - La luce, egli esclama, la luce vien meno. - La mano sinistra ed i muscoli dell'occhio e delle guancie sono colpiti da paralisi, ed egli comincia a scrivere con errori di ortografia e con bisticci, come wie gut es mir gut - invece di mir geht - oppure: - Io non son delirante, ma lirico. - Tutto ad un tratto, il 12 ottobre, è preso da un violento accesso di suicidio. - Impeditone, va in furia, batte, rompe, abbrucia i manoscritti. - A poco a poco però poi si rimette, rinsavisce e giunge anzi ad analizzare, minutamente, il suo accesso e farne, in versi la descrizione in quel terribile, caotico, canto che è il suo Traumgewalte. - Era un raggio di sole nella buia notte, era il genio, come ben disse Schilling, che pur un'ultima volta giungeva a domare il delirio. Di fatti lo stato suo andò sempre più peggiorando; ad altro accesso suicida succede quel fatale benessere, quel dolce eccitamento, che è proprio delle incoate paralisie progressive. "Io godo della vita, io godo, diceva, che alle terribili imagini d'una volta, sieno succedute imagini sì liete e deliziose." Ei fantasticava d'essere nel Walhalla, con Goëthe, o d'esser diventato re d'Ungheria, vincitore di molte battaglie, bisticciando sul suo nome agnatizio.

Nel 45 ei perde, anche, l'odorato, ch'egli avea prima finissimo, nè ama più le predilette viole; né più riconosce i vecchi amici.

Malgrado quel tristissimo stato, egli compose ancora una lirica, di esagerato misticismo, ma non spoglia delle antiche bellezze, e condotto, un dì, vicino al busto di Platone: "Ecco, disse, l'uomo che inventò l'amore stupido." Un giorno, sentendo dire da alcuno: Qui dimora il gran Lenau, replicava il poveretto: "Ora Lenau è divenuto piccolo piccolo," - e pianse e pianse lungo tempo ancora. "Lenau è infelice" sono le ultime sue parole; nel 21 agosto 1850 moriva; la necroscopia non seppe rinvenire che un po' di siero nei ventricoli e traccie di pericardite pregressa.

10.° Quello stesso manicomio di Döbling vide morire, pochi anni dopo, un altro grande, lo Széchenyi (1), il creatore della navigazione danubiana, il fondatore dell'Accademia Magiara, il promotore della Rivoluzione del 48. Quando questa era nell'arme, ed egli ministro, fu sentito un giorno pregare il suo collega di ministero, Kossuth, che non lo volesse impiccare. Si credette uno scherzo - ma non era... Egli, presago delle sventure che si addensavano sul suo paese, ingiustamente incolpandosene, era stato preso da manìa di persecuzione, che in poco tempo ruinava in furiosa e suicida. Calmatosi, alquanto, di poi, era diventato d'una loquacità patologica in un diplomatico e cospiratore, tanto che si vedeva fermare quanti idioti e pazzi e peggio nemici del suo paese incontrasse nel manicomio, loro snocciolando la lunga confessione dei proprii imaginarii peccati. - Nel 50, un'antica passione pegli scacchi gli si risvegliava e vestiva il colore maniaco; si dovette pagare un povero studente che giocasse con lui, dieci, dodici ore di seguito senza interrompersi; alla dura impresa il poveretto impazziva, ma Széchenyi migliorò; ed il ribrezzo che gli suscitava fin allora il contatto degli uomini, perfin la vista dei suoi cari, incomincia a scemare.

(l) S. Széchenyi's staatsmannische Laufbahn, seine letzen Lebensjahre in der Doblinger lrrenanstal von Kecskemetky. Pesth, 1866.

Non gli restò dei suoi ticchi morbosi che una ripugnanza per la viva luce dei campi e per uscire dalla sua cameretta, sì che gli stessi suoi diletti figliuoli accoglieva, soltanto, in alcuni giorni del mese; allora, con un certo suo gesto se li rimorchiava amorosamente al tavolo; rileggeva loro i suoi lavori; - ma ci volea tutta l'astuzia per farlo uscire sul parco. - L'intelligenza era restata limpida, anzi era, quasi, più vigorosa di prima. Teneva dietro a tutto il movimento letterario Tedesco e Magiaro, e spiava ogni baleno di miglior fortuna pel suo paese. Quando vide che uno intrigo austriaco ritardava il complemento di quella ferrovia dell'Oriente, a cui egli aveva dato una mano tanto vigorosa, scrisse una lettera al Zichy, di cui alcune righe bastano per dipingere la potenza del suo concetto:

"Ciò che una volta ha esistito riappare spesso nel mondo sotto un'altra forma e in differenti condizioni; certo una bottiglia infranta non potrebbe accomodarsi, tuttavia que' miserabili frammenti di vetro non sono perduti, possono ancora essere rimessi nella fornace e divenire quel vaso, ove brillerà il re dei vini, il Tokai, mentre la infranta bottiglia rinchiudeva una volta del vino ben guasto.... Il più grande elogio che si possa dare ad un ungherese è quello di dire che egli ha tenuto fermo. Tu sai mio caro, il nostro vecchio proverbio; 'restare in piedi anche nel fango;' applichiamocelo, sfidiamo i rimproveri dei fratelli per servire la causa comune. Restare al suo posto, in mezzo alla fanghiglia, che certi patrioti fanatici e leggeri gettano in faccia ai fratelli ed ai compagni d'armi, fissarvisi ostinatamente quando si sente l'oltraggio percuoterci in volto, ecco la parola d'ordine del tempo presente."

Nel 58, quando il ministro austriaco faceva pressione sull'Accademia Ungherese onde abolisse l'articolo che ad essa affidava la coltura della lingua magiara come la impresa opera fondamentale, egli detta un'altra lettera che dipinge egregiamente l'animo suo:

"Posso io tacere quando vedo schiacciare questo nobile seme? Posso io dimenticare i servigi che questo potente benefattore ci rese? Io lo domando, io, il cui male non è già una vaga confusione d'idee, ma invece il dono fatale di vederci troppo chiaro, troppo netto, di non farmi alcuna illusione. Non devo, io, gettare un grido d'allarme, vedendo la nostra dinastia ossessa da non so qual malefizio, incrudelire contro il più vivace de' suoi popoli, contro quello a cui l'avvenire serba il più grande destino; e non solamente sprezzarlo, ma soffocarlo, ma strappargli, ogni carattere proprio, scotendo dalle radici l'albero secolare dell'impero! Fondatore di questa Accademia, a me tocca, ora, a parlare. Infino che la mia testa starà diritta sulle mie spalle e il mio cervello non sarà del tutto scombuiato e la luce dei miei occhi non sarà velata dalla notte eterna, io terrò fermo il mio diritto di decidere dei regolamenti. Il nostro imperatore finirà, tosto o tardi, per conoscere che l'assimilazione di tutte le razze dell'impero è un'utopia dei suoi ministri; un giorno verrà in cui quasi tutte si distaccheranno; solo l'Ungheria, che non ha alcune affinità di razza con le altre nazioni europee cercherà svolgere il proprio destino sotto l'egida della reale dinastia."

Era il 58. Nel 59, e prima anzi che la guerra scoppiasse, egli ne prediceva la sconfitta ed i suoi esiti. "Vi hanno, diceva, delle crisi che conducono a guarigione quando il malato non è incurabile." Egli fece pubblicare a Londra un libro in cui, in una forma bizzarra, umoristica, ma terribile ad un tempo, fa la storia dei patimenti dell'Ungheria sotto il sistema di ferro di Bach, e traccia il suo avvenire e consiglia una politica concorde, parallela, ma non servile dell'Austria. "In verità, diceva egli stesso, questo libro è miserabile, ma sapete voi come si è fatta l'isola Margherita? Secondo una vecchia leggenda, il Danubio correva nel sito da essa occupato; una carogna, non si sa come, venne a cozzare colà, sopra un banco di sabbia e restovvi impigliata; la schiuma, le foglie e gli sterpi, tutto quanto trascinava il gran fiume andarono sopra ammucchiandovisi, finché ne sorse un giorno la magnifica isola. La mia opera è qualcosa di simile a quella carogna. Chi sa cosa ne potrà sortire un giorno."

E pochi mesi dopo Hübner succedeva a Bach; il sistema liberale era, per la prima volta, inaugurato; l'infelice non poteva più in sè dalla gioia; incoraggiava, dalla sua umile stanza, il ministro, gli mandava piani di riforme, inspirava o redigeva memorie sul rinnovamento dell'Austria, non dimenticando la sua Ungheria. Parecchi grandi politici austriaci vennero allora a sedersi al suo desco, inspirandosi alla sua parola feconda. Ma la lusinga fu troppo presto delusa; a Hübner succede il Thierry, un cattivo discepolo di Bach, coi vecchi sistemi e coi più vecchi arnesi dell'Austria; ogni riforma è messa da banda; l'infelice si dibatte, dolorosamente, a questa notizia; chiama Rechberg, lo prega di avvertire in tempo l'imperatore del nuovo suo sbaglio, gli sottopone un programma con una costituzione per l'Austria ed una per l'Ungheria; gli affari interni trattati separatamente, la bisogna generale discussa in comune; Rechberg, assai men previdente di quel pazzo sublime: "Si vede, diceva, scrollando la testa, che un tal progetto vien fuori da un manicomio." Peggio: il ministro Thierry sospettando, nel grande magiaro, un volgare cospiratore, manda un codazzo di birri a perquisirlo nel manicomio, lo minaccia di trascinarlo in prigione, lo priva delle carte dilette.

L'infelice, la cui pazzia, tutta, riducevasi a un bisogno irresistibile di giovare al suo paese, a un rimorso di non avergli abbastanza giovato, e che ora si vedeva preclusa la via ad ogni opera, ad ogni speranza, dopo aver tentato, invano, sfogare l'acuto dolore rigiocando disperatamente agli scacchi, con un colpo di revolver, si uccise. Era l'8 aprile 1860. - Nel 67 Francesco Giuseppe, coronavasi re d'Ungheria, avverando i sogni dell'alienato di Dobling, e Rechberg che li avea derisi, era chiamato a metterli in pratica.

Dopo tanti esempi, constatati, anche sotto i nostri occhi, e nelle più disparate nazioni, chi dubitasse ancora che il genio possa coincidere colla pazzia, farebbe segno di essere o cieco o caparbio.


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