APPENDICE PRIMA

Giornali dei pazzi. (Vedi pag. 62.)

Come ho toccato, più sopra, il diario da me iniziato nel Manicomio di Pesaro, e quelli bellissimi che escivano, poco dopo, a Reggio, a Palermo, Perugia, Ancona, Colorno, Napoli, Siena, Ferrara e per qualche tempo a Pavia, hanno accumulato tanta copia di prove in favore della nostra prediletta teoria, da non lasciarmene troppo facile la scelta.- Proviamovici tuttavia: e cominciamo da quella saporitissima Gazzetta del Frenocomio di Reggio, N.1 e 2 del 1875, che dipinge, a pochi tratti vigorosi, come sa farlo il Livi, un povero operaio ignorante, cui la pazzia ispirava le idee Darwiniane, al pari che al mio venditore di spugne (vedi sopra a pag. 21).

G.R... di Modena era qui fino dal 1850, e pare che vi venisse, malato da 16 anni. La natura gli fu poco favorevole. Rachitico, un po' curvo della persona, di faccia camusa e smunta, grandi le orecchie, lunghe le sopraciglia, lungo e adunco il naso che tendeva a combaciare col mento, stentato e tardo nel passo, muoveva involontariamente al riso al primo vederlo. Ma avvicinatolo, non si poteva a meno di prenderne interesse, perchè fuori del delirio era misurato e arguto quanto mai nel discorso.

Poco sappiamo della sua vita antecedente. Era celibe, di famiglia civile, ma scaduta, e sembra che una certa istruzione non gli mancasse. Portava tristissimi germi ereditari. La madre all'età di 84 anni, presa da' delirio di persecuzione, temeva tentassero di violarla o avvelenarla. Mi domandava del figlio, lo conosceva per alienato e compativa le sue aberrazioni. Pare che nella famiglia di lei la pazzia fosse ereditaria, perchè una zia materna era morta pazza, e uno zio materno erasi suicidato.

Egli ereditava dalla madre non solamente la pazzia, ma la stessa forma di pazzia. Sembra che da sano liberaleggiasse d'idee e che incorresse ne' sospetti, e forse anche nelle persecuzioni del governo ducale. Di qui il suo delirio di persecuzione, il quale fin da principio si nutriva di allucinamenti acustici e visivi. Sentiva quasi continuo un suono terribile, una tromba locutoria: son sue parole. Vedeva angeli, preti e donne che gli parlavano alle orecchie per mezzo di tubi e portavoce, lo ingiuriavano, lo minacciavano. Erano i soffioni dei sanfedisti, della congregazione del S. Offizio. Questi soffioni per mezzo di fili galvanici misteriosi l'obbligavano a stare, a fare o non fare una cosa: egli non aveva libertà. Invano col cambiar di governo aveva sperato di liberarsene; invece questi erano cresciuti e incattiviti più che mai. Un giorno se li vide apparire a centinaia da uno spacco della vôlta: soffiavano con cento bocche contro di lui, sicché dal rumore se ne fuggì spaventato.

Del resto, del suo delirio non discorreva se non interrogato ed a gran fatica: pareva che temesse fino dell'aria, a parlarne. Ordinariamente se ne stava seduto molte ore del giorno, a capo basso, cheto, tranquillo, distratto e inoperoso.

Una volta, l'anno scorso, lo domandai se avesse avuto mai qnalche [sic] mestiere tra mano; mi rispose: il torno. Allora volli metterlo subito all'opera; il che fece volentieri, in grazia anche di un po' di tabacco e vino di più. Poi gli affidai anche un giovanetto sordomuto, perchè gli insegnasse il mestiere, e ne fece un buon allievo. Volli provare a farlo recitare in teatro; era una parte di pochi monosillabi, che gli si adattava assai bene, ma non vi fu verso potesse impararla, tanto la memoria era ridotta a niente.

Eppure, chi avrebbe detto che in quella povera testa di alienato covasse un sistema filosofico, logico, ordinato! Come in lui potessero ordirsi e architettarsi coteste idee, m'è rimasto sempre un mistero. Difficile assai, che potesse essersele formate avanti la malattia. Con quella mente debole, senza studj adattati, con una mezzana cultura, quarant'anni fa, a Modena, in un povero lavorante, certe idee non erano possibili. Nella malattia, in mezzo a quel vortice di allucinazioni e deliramenti, più difficile intendere come si svolgessero e diventassero in lui convizioni profonde!

In una parola era materialista, con tutte le conseguenze logiche del sistema. Noi non ce n'eravamo mai avvisti. Fu un giorno che per caso rammentando la parola anima, disse pacatamente che l'anima non esisteva. "Nel mondo non c'è che materia, e forze della materia: il pensiero viene dal cervello ed è una forza come l'elettrico. Il mondo è la materia, e la fisica materia è eterna, infinita: sono le forme solamente che passano, e gli individui: l'uomo dopo morte torna al nulla, e la sua materia si trasforma chi sa in che."

Ebbene, gli dicemmo una volta, come spiegate la comparsa dell'uomo sulla terra? "Per via di modificazioni," rispose; "prima sarà stato un verme, che poi via via trasformandosi, perfezionandosi, divenne uomo. (Era la teoria di Darwin !) Le religioni, tutte invenzioni di preti! In politica miglior governo di tutti la repubblica: in società la poligamia." In tutto trovavamo un radicalismo serrato e compatto, e così radicato nella convinzione di lui, che faceva un singolare contrasto con la persona e la malattia.

In que' freddissimi giorni del febbraio fu preso da pleurite, cui successe versamento. La tosse, l'affanno, la febbre erano i sanfedisti che gliela mandavano col galvanismo. Ma, aggravandosi nel male, l'istinto della conservazione lo fece cambiare d'idee. Aveva rinnegato il materialismo, e si confessava cattolico, apostolico, romano, per vedere di stornare la vendetta della Congregazione, della quale parlava con terrore grandissimo. Ma i soffioni e le trombe locutorie seguitarono a tormentare, fino all'ultim'ora, le orecchie e il cervello di quell'infelice. Morì il 5 marzo, in età di 60 anni.

Autopsia. - Testa. Cranio dolicocefalo: cervello (vestito di meningi) pesante 1305 grammi. Dura madre aderentissima al cranio, e grossa; grosse pure le ossa craniensi; aracnoide opacata. Piccole emorragie capillari nell'isola sinistra e nella sostanza bianca, ch'è molto punteggiata. Midollo allungato, protuberanza, olive e cervelletto normali.

Dalla Cronaca del manicomio di Siena, n.5 (maggio 1874) togliamo questo poemetto di un ricoverato, degno d'esser chiamato poeta:

Quando si è preso un qualsivoglia impegno
Bisogna sostenerlo ad ogni costo,
Né si può ritirarsi in modo indegno
Se si trattasse di morire arrosto:
Onde, per contentar l'altrui desìo,
Entro nel campo e mi presento anch'io.

L'ultimo a comparir fu Gambacorta,
Dice il proverbio, e qui lo dice a dritto,
Chè la mia vena è assiderata e morta
E di miserie ho il mio cervello afflitto;
Ma se voi mi assistete in tal momento,
Dò un calcio alla paura e allo sgomento.

L'energico voler le forze addoppia
E la virtù ristora a nuova vita,
Il pensier se ne infiamma e vivo scoppia
Anche in alma talor quasi avvilita;
Chi ne brama un esempio naturale
Lo porge Alfieri che si fe' immortale.

Come fa nella piazza il saltimbanco
Che muor di fame e pur trattien la folla,
Quest'oggi disinvolto, ilare e franco
Scatto pur io del mio cervel la molla,
E dò fiato al mio cantico improvviso
Col serpe in petto e con sul volto il riso.

perchè non è lo stato il più giocondo
Quel di trovarsi allo spedal rinchiuso,
E dopo tanti sogni e tanto mondo
Pescar nel vano del cervel deluso;
E l'entusiasmo della poesia
Perde il nervo primier nella pazzia.

Così vollero i fati, o miei Signori!
Non si contrasta col destin contrario;
Ma voi che sì gentili avete i cuori,
Compatirete, io spero, al nuovo Mario
Che qui si trova infermo a voi dinanzi
Della propria Cartago in sugli avanzi.
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In questo mondo che procede a caso
E il più spesso ne va senza timone,
Dove la bocca non accorda al naso,
Dove cozzano insiem cuore e ragione,
Dove il concerto e l'armonia difetta,
La musica è miglior d'una ricetta.
......................................

L'armonia delle sfere universale
Spiega dovunque il suo poter sovrano,
Tutto il mondo si regge e impenna l'ale
Sopra numeri e note in modo arcano;
Chi non ha testa musical compita
Armonica non ha nemmen la vita.
......................................

R.C. DI SIENA



E questa che descrive una gita di piacere a S. Gemignano, paese bellissimo in su quel di Siena:

Non voglio scomparir per così poco
E al Palmerini voglio far lo schizzo,
Ragionando così come per giuoco
Quantunque il mio cervel sia mezzo vizzo;
Ma dopo questa volta a viso duro
Non vo' più versi e mi rinserro al muro.

Dico e ripeto, non mi regge il fiato
Né più trovo il pensiero o l'argomento,
Del Palmerini l'animo educato
Lo dovrebbe capir senza commento;
Dall'altra parte una parola sciocca
O casca in falso o il segno suo non tocca.

Non è mia smania di parlare a caso
Del comun senso a temerario oltraggio,
Ma poichè il direttor n'è tanto invaso,
Per un verso improntar mi fo coraggio,
E se il mio verso mancherà di polpa
San Gemignano ne averà la colpa.

Città graziosa, che del monte in cima
Siedi regina a cavalier del piano,
Perdonami l'oltraggio della rima
Se, con accento inconcludente e vano,
Della mia vita alla dolente istoria
Ardisco di allacciar la tua memoria.

Sol chi mai non ti vide o non si appressa
Anche per poco al tuo gentil prospetto,
Non sa quanta vaghezza ha in fronte espressa
L'antica rôcca del castel diletto,
Che quanto antica, niente men prestante,
Mertò raccôr nelle sue mura un Dante.

Di sue spigliate torri il giuoco altero
Le fa stupenda una corona in testa,
Per cui simile quasi ad un guerriero
Fra le nubi del cielo alza la cresta,
E si asconde così fra mille rai
Che monta e monta non si arriva mai.

Godi la purità del tuo bel cielo,
Città felice e solitaria in parte,
Te della nebbia non ricopre il velo
Ma si addensa al tuo piè quasi in disparte,
E del mondo il clamor falso e procace
Va da te lungi e ti abbandona in pace.

Di tue campane l'armonia gentile
A sensi arcani intenerisce il cuore,
E l'alma 'ha ben dura nel seno e vile
Chi del tuo Duomo non ritien stupore,
Che di mole benchè non troppo vasta
Di beltà splende moderata e casta.

Un organo di suon canoro assai
Accompagnava il funeral di un morto
Quand'io del tempio il limitar passai
E in più mesti pensier mi vidi assorto;
Confesso il ver, mi parve in quell'istante
Che fossero per me le preci sante.

Ma il lieto stuol che mi venìa seguace
Seco mi addusse allegramente a pranzo;
Dove fra scherzi e il cicalar procace
Tornò la gioia e n'ebbe ognun d'avanzo;
Dall'altra parte al suon della bottiglia
È stolido colui che se la piglia.

Se non che il fato che mi segue a fianco
Mandò uno scroscio a intorbidar la festa,
Poca miseria aggiunta a chi n'è stanco
E dai contrasti ha sempre in duol la testa;
Ma la pioggia scortese ebbe giudizio,
Cessò fra poco e ci scortò il cilizio,

Onde restituiti a miglior pace
Il lieto stuol dei matti e qualche saggio,
Alla città graziosa e insiem vivace
Diêr l'ultimo congedo e fêr viaggio,
Ripercorrendo la battuta via
Delle lucciole al lume in compagnia.

Nel mio pensiero il tuo bel nome è scritto,
San Gemignano dalle torri svelte;
Fin da Certaldo il guardo mio confitto
Su te si riposava e sulle scelte
Memorie di tua storia ampia e distinta,
Per man valente disegnata e pinta.

Nè allor poteva immaginar per sogno
Che un 'di ti avrei pur visitata anch'io
In congrega di tanti e pel bisogno
Di qualche appoggio al disinganno mio;
Se non che l'uomo, finché ha denti in bocca,
Non sa giammai quello che alfin gli tocca.

Addio, gentil paese, a tua memoria
Consacro questi versi e a te lì addrizzo;
Del ricetto ospital ti rendo gloria
Con questi rozzi accenti e questo schizzo;
Stanco e spossato qual mi sento e sono
Non cerco plauso ma bensì perdono.

27 giugno 1876.
R. C.

Nella stessa Cronaca del giugno 1876:

Salta, pagliaccio e fa le capriole
Siccome esige l'occasion del giorno,
Col nostro direttor così lo vuole
La brigata gentil che siede intorno;
Non giovano le smorfie e le parole,
Dal preso impegno non puoi far ritorno;
Poi chi nacque a formar l'altrui diporto
Deve saltar da vivo e anche da morto.

Già si capisce bene, io lo comprendo,
Volete un brindisino, un complimento;
Sia pur, la cetra nelle mani io prendo
E formulo improvviso un qualche accento;
Sol che del verso mio lo stuono orrendo
Sappiate compatirmi; in tal momento
Sul povero asinel che mi sta sotto,
Farò il campione e giostrerò di trotto.
.....................................

Passaron già tre lustri e la mia stella
Si ecclissò in parte e si coprì di un velo,
Non so qual sorgerà l'alba novella
Se più serena o più tranquilla in cielo,
Benché la vita mia più lieta e bella
Non ha più fiori ormai sopra lo stelo;
Sarà quel che sarà, Rosina, addio,
La mia speranza si riposa in Dio.

Pur, comunque si volgano gli eventi,
Vi anticipo, signori, il mio congedo;
Porti il tempo che vuol nei suoi momenti,
La fronte abbasso e al mio destino io cedo,
Del grato animo mio gli estremi accenti
A voi lascio, signori, a voi li cedo,
Desiderando che vi sian compenso
Di vostra gentilezza in ogni senso.

Ma il nostro direttor qui mi richiama
Nè vuol parole di melanconia.
......................................

14 giugno 1876
R.C.



Nel Bollettino del Manicomio di Ferrara (aprile 1874) si legge questa lettera :

"La supplico primieramente, quando non ostino le regole dello stabilimento, di risparmiarmi una gran tortura; quella di farmi radere, o rodere, come dice quel gentilissimo monsignore di cui è opera il Galateo, riprovandolo come un bisticcio sconcio. Ma io posso ben dir rodere, anziché radere, e meglio ancor scorticare, tali ho io barbieri o barbari; per continuare il pessimo vezzo, che non è che un freddo e scipito giuoco ed iscambio di locuzione. E lo dico ben a ragione, poichè siffatta è diventata la pelle della mia faccia, che par che il rasoio la solchi piuttosto che accarezzarla. Ma per ciò ottenere, ho di mestieri dell'esplicito suo consenso, disteso sopra una polizzetta che servirammi di salvocondotto, di esenzione, di privilegio. Io l'aveva sempre portata e mi stava bene, poichè la barba è una veste natural dell'uomo; ed il celebre prof. Medoro di Padova la prescrisse ad un mio amico, non so a riparo di qual incomodo. Ella potrà saperlo meglio di me.

"Secondamente, la pregherei di declinare, per me soltanto, dalla consuetudine della sera, ammettendomi a cibare di ciò che più appetisce e può giovare al mio ventricolo divenuto di carta pesta, e costituito in piena dispepsia, come la chiamano lor signori, o sembrami. La mi faccia grazia di quella eterna zuppa, che stancherebbe lo stomaco dell'Erisittone della favola e del pantagruelico Gargantua. Vorrei che fossemi conceduta un'insalata cotta, e accontentereimi delle patate, alternate, di quando in quando, con qualche ovo tenero - ova sorbilia. -

"Ancora tira un forte rovaio, e m'accorgo che la primavera è più fatta per i poeti che per fare una buona cura; ma presto egli darà luogo e allora il cielo diverrà più trattabile a navigarvi, ed ella potrà montare sul carro di S. Giovanni e salire fino alla luna per riportarne l'ampolla con entrovi il senno che andò in vapori, come fece Astolfo per quello del conte Orlando: agréable folie, come chiamala Fontanelle, graziosa follia e del tutto appropriata al caso mio.

"P.S. Non le sia discaro ricevere il sonetto che è qui dentro; con ciò però ch'ella non ne inferisca un peggioramento della mia mente."

ARIOSTO.

Il grande che cantò l'armi, gli amori
Vien poetando come mar che freme,
Di cui il flutto che l'un l'altro preme,
Del ciel riflette i tremuli splendori, ecc.
.........................................

Nel Diario del frenocomio pavese (N. 24), vedo questa curiosa lettera di M.° G. monomaniaco, erotico ed ambizioso:



Addì 9 marzo 1874.

Professore.
"Vedono che aspetto tranquillo, che tranquillità di animo; con che pacatezza racconta le sue fantastiche vicende; vero monomaniaco, ecco: si conosce fino dagli occhi che sono alquanto appannati (dilatandomi le pupille per farli osservare dai suoi studiosi allievi); così diceva la S. V. indirizzandosi a questi, dopo avermi fatto sedere sulla panca: ma io allora non potendomi più contenere le risposi: Ch'io non era pazzo, e perciò mi meravigliava di veder farmi davanti a questi studiosi giovinotti tali osservazioni; ma subito dopo, rientrato in me stesso, soggiunsi: "Si, sono un povero pazzo, lo confesso, ma non sono dannoso né a me stesso né agli altri; epperciò la legge parla chiaro: che non si può racchiudere nei manicomj se non quelli che sono nocivi a se stessi, o agli altri." La S. V. allora mi rispose prontamente: "Le dimando scusa, ma io non l'ho trattata da pazzo;" però cavandomi il mio cappello, e facendo osservare la profonda cicatrice della mia fronte, a questi suoi studenti, mi seguitò a dire: "ma qui (toccandomi la cicatrice) però si mostrò dannoso a sé stesso." Allora io prontamente le risposi: "La S. V. vorrebbe dire con ciò che questa è vera pazzia; ma io invece le sostengo che non è, perchè ora non ho più niente; allora era disperazione soltanto; anche quelli che si suicidano per miseria sono disperati, e non pazzi, perchè ragionano fino al punto del suicidio, ed è la sola fame che li costringe a venire a questo eccesso. Anch'io adunque era disperato e non pazzo, perchè ragionava fino a quel fatale istante, ed il pazzo invece sragiona; e la cagione della mia disperazione, fu il mio amministratore, col non aver mai risposto a tre lettere scritte dall'ora defunto direttore."

Io allora sapendo per bocca istessa del R. che il D. non aveva mai risposto nemmeno ad una di queste lettere, feci questo ragionamento: se il mio amministratore non si sognò nemmeno di rispondere, tanto meno avrà stesa l'istanza per la mia libertà presso il R. Tribunale; il R. Tribunale già s'intende non mi lascia in libertà se non dietro istanza fatta dal suddetto amministratore. Credendo, lo ripeto, di dover finire la mia vita in quell'ospizio, che è una morte lenta, una vera continua agonia, in pericolo col lungo andare di divenire pazzo davvero o stupido; perciò preferii una morte subitanea, che alla fin fine era un dolor solo, e non un continuo martirio, ecc.

Una monomaniaca, ginevrina, di 50 anni, già aja in onorata famiglia, vi scrive:

Sì, dopo tutto quel che ho passato, dopo d'essere stata tant' anni sotto la lingua del pubblico esposta, fatta diventare l'argomento delle sue canzoni, delle sue satire, e dopo avermi, di viva forza e senza legittima ragione fatta sortir di casa mia, ove tranquilla era, per rinchiudermi in un luogo come questo! una riparazione visibile, sensibile e d'ogni genere, m'è dovuta, essa è indispensabile. Ma non mi si deve credere così vana di aver l'ambizione che sia fatta con pompe, con strepito, come spesso si dice in certi discorsi artificiosi che oggi giorno fanno, sicuramente, per cercar di scoprire i miei pensieri, veder quale impressione su me faranno, ma che piuttosto servono a far veder a me tutto quel che esiste di maligno nel cuore altrui...

Discorsi poco caritatevoli, ma dei quali non mi fo rossa di vergogna, perciocchè nello spazio di venti anni che sono stata in Pavia, il modo di pensar ed operar mio non fu nascosto. La mia vita fu, io credo, tutt'altro che quella d'una avventuriera, come talvolta in questi discorsi, mi si fa figurare. Sicuramente che senza difetti non sono, perchè, figli di Adamo, siamo tutti colpevoli; nessuno su questa terra, si può dire perfetto.

Veniamo ora a quella miniera che è il citato Diario di Pesaro:



SONETTO INTITOLATO COLLA CODA.

Finito il Cartolar, dico a mé stesso:
Ah ecco il nobil pranzo assicurato!
Ma una voce al mio cuor soggiunse appresso:
Se accetti, o don Cecchino, avrai sbagliato!

Tu di parlar non sai quando è permesso,
Né quando il tuo tacer sia divietato;
Il Pigno non distingui dal cipresso;
Come puoi star di Neri e Bianchi a lato?

Ed io concludo: Se di umiliare
Piace al Signor un'anima vivente
Col tenerle nascosto alto Mistero,

Che per giusti suoi fini palesare
Ei si compiacque a tutta l'altra gente,
Con ira Ella ha da star e volto altero?
Io no'l farò davvero,


Ond'è che accetto il grazioso invito
che credo da leal cuor partito,
E a chi mi tien ardito:


Acqua che corre e lingua che vuo' dire,
Risponderò, non si ponno impedire.


F. C. n. 12.



OSSERVAZIONI SUI COMUNI.

Ho passato quasi tutto l'inverno nelle così dette stufe ove ho avuto campo di fare alcune osservazioni, sulle tendenze ed abitudini di alcuni di loro. Siccome credo far cosa grata a chi ci regge, così ho pensato di farne un'esatta descrizione secondochè consentono le mie deboli forze, e ad onta che I... dica che se io la leggessi ad alta voce crederebbe di assistere alla spiegazione che si fa dai ciceroni del serraglio.

Uno di quelli che meritano speciale attenzione si è un tale che, appoggiato al muro, non si muove mai; chiamasi S... Un altro si tien coperto sino al naso colla giacca e si gode e si trastulla nelle immondezze tutto il giorno.

Un terzo certo L... obeso all'eccesso, con una mano si frega la testa di continuo, C... stropiccia sempre le mani, passeggia continuamente nell'istesso posto, dieci passi avanti dieci passi indietro, e grida, invocando tutti i Santi. Un altro, immobile al posto dove siede, dimena il capo e sorride di frequente. Un certo C. P... di F... parla ognora de' suoi milioni e delle fabbriche e delle macchine che vuole attivare quando sarà sortito nel gennaio del 1875, come dice, ma invece se ne andrà agli eterni contenti ben presto, perchè è affetto da paralisi. Un monocolo B... si diverte a fregare tutto il giorno due sassi, uno contro l'altro e parlando sempre fra sé. Certo M... ex marinajo parla, ad alta voce, sognando d'essere sul bastimento e nell'atto di intraprendere lunghi viaggi. Un certo S... crede di essere capitano di esercito, e diventa una bestia, se alcuno lo contraddice, specialmente quando gli si dice, per ischerzo, di porgli la museruola. Un altro chiamato Italia, sempre tinto di nero di carbone, grida tutto il giorno, passeggia velocemente fregandosi la testa a due mani, dimenandosi, e dicendo: Fermati! fermati! Cotale P... si crede uomo d'importanza, possiede secondo il suo detto molti ed estesi tenimenti, sorte tutte le notti di nascosto, e torna alla mattina dopo lunghi viaggi. Un certo X... detto il Gobbo, famoso per imbrogli e bugie, e il vero tipo del Viscardello o Rigoletto, cerca sempre d'ingannare tutti, e vive di pasticci. La Luna è un vecchio ingordo non mai sazio, ha tendenza al furto, e ruba tutto quello che può, specialmente i fazzoletti; egli credesi il Beato Girolamo... Il Romano ex militare, sucido da capo a piedi, anch'esso tende al furto.

M... solitaro camminatore racconta di essere fasciato, e quando sarà sciolto potrà intraprendere il volo dei campi Elisi, verso il purgatorio, o per l'inferno, pel mondo intero, dove più gli piacerà. Don V... si dà tutta l'importanza e l'autorità del Santo Pontefice, dice chiamarsi Sileno primo, e guai a chi gli nega tanta autorità. Racconta che è trattenuto qui dai suoi nemici, che ben presto andrà a Roma ove sarà accolto con tutta la pompa dei Sommi Pontefici Romani. Antonio, seccatore importuno, insaziabile mangiatore, pronto anch'esso al furto, si arrabbatta per mangiare, fumare, e giocare. Celeste F... sui cinquant'anni sta quieto molto tempo, poscia cade in delirio e passeggia furiosamente pei corridoj dicendo che non vuol andar a riparar le tempeste e finisce col giocare pazientemente una briscola. V. R... di V. passato allo stato di imbecillità perfetta, minaccia sempre di voler ammazzar tutti, e non ammazza nemmeno le pulci. Un Toscano molto dedito all'onanismo grida a gola aperta, che la sua fame è insaziabile, vuol sfidar tutti, e non sfida alcuno, chiamando tutti beccamorti; credo però che mangi il doppio degli altri. L... ex pittore parla poco, ma quando discorre grazia al cielo non si capisce niente. B. L... s'impianta contro il muro, e vi sta dei giorni interi senza dire una parola. L... si dà l'aria di un ministro, di un deputato, discorre tutto il giorno con persone che non si vedono e finisce coll'allacciarsi una calza, settanta o ottanta volte in un giorno. Infine M... credesi Napoleone I., crede di essere un gran talento, di essere un eroe, e vuol sempre aver ragione, ha il brutto vizio di menar le mani. R... muratore avaro per eccellenza, contratta con tutti, strozzando chi può, purchè possa intascar danaro.

M... detto il Bischero, curioso all'eccesso, petulante e nojoso, seccatore, già colpevole di delitto di sangue e di un reato contro natura, ora dedito al bigottismo, lavora nella cucina, ma non dimentica il rosario, ed ha il vizio di ammazzar la gente a furia di domande. Don L... appassionato per il tabacco, uomo sprezzante e avaro, passeggia tutto il giorno sotto il portico, e dice che è un disonore il tener chiuso un talento par suo qui dentro, e che i superiori ne renderanno stretto conto, quando sortirà. Pinacchia, detto il Barbacane, già soldato papalino, tipo buffone, ognora contento quando mangia e fuma, tronca sempre i discorsi, e passa da un argomento all'altro continuamente. M. A... bravissimo lavorante, servizievole in tutte le faccende, sta quieto qualche tempo, poscia sviluppa la sua malattia gridando ad alta voce sotto i portici e guai a chi gli parla. N. D. M... soprannominato l'avvocato si dà l'importanza adatta al titolo che gli vien attribuito, non tace mai e non si acquieta mai, volendo aver sempre ragione. F... già condannato per una rissa e per aver rubato un sacco di grano, è ora pazzo, parla fra sé e non pensa che a mangiare, bere e fumare. V... detto il Gatto, uomo fiero e sanguinario, ex militare, spesso passeggia pei cortili, con molto sussiego, è pronto a rissare con chi lo contraddice, e a menar le mani. C. G... di F... già falegname, uomo di bellissimo aspetto con una lunga barba, fu dragone del Papa, ora ha perduto il ben dell'intelletto, per cui i suoi discorsi sono degni di un vero imbecille. R... detto il Lombardone, losco, vero tipo della bestia; se si adira morde come una jena e i suoi morsi sono tanto terribili da ricordarli per un pezzo. Domenico B... detto Rataplan, ha l'abitudine di far le corna a tutti e di dar la benedizione da mane a sera. Vi è poi una lega detta dei giuocatori, che giuocano dalla mattina alla sera fra i quali primeggiano certi Pocupolino, Pacino, Marchino e Gradara.

Molte altre biografie, come pure altre osservazioni sono da farsi, se piacerà a chi legge. In quanto al servizio non tengo parola lasciando la cura di riferire, in caso, a chi spetta.

B. G. n. 18.



DON CHECCO.

In ossequio alli cenni dei degni superiori,
Oggi mi trovo anch'io fra tutti lor Signori.


Se mai è poco accetto Don Checco, egli si scusa
Con questi pochi versi della sua stracca musa.


Tempo già fu che l'estro avea le rime in pronto,
Ma oramai per gli anni è addivenuto tonto;


Eppoi qual argomento scegliere si potria
Da soddisfare il genio di nobil Compagnia?


Si dice per proverbio, e i proverbi son veri,
Che quante son le teste, altrettanti i pareri.


Or mentre di mia vita la storia sto scrivendo,
A darne Loro un cenno io per appunto prendo.


Lo dissi e lo ripeto, povero io nacqui al mondo;
Questo non è vergogna, però non mi confondo.


Poteva, è troppo vero, aver di più studiato,
Allora i Mecenati m'avrian considerato:


Ma neppur ciò m'attrista; persuaso son ben io,
Se son restato al basso, così è piaciuto a Dio.


Benché a poter campare ebbi provvedimenti,
Che io lasciai, stimando non fosser pe'miei denti.


Maestro fui, Canonico, Pievan, Predicatore,
Ed or, spoglio di tutto, tripudio nel mio cuore;


Nelle varie vicende che ebbi in tutta vita,
Iddio m'aiutò sempre per sua bontà infinita;


Adesso che mi trovo in luogo pio e santo,
Credetemi, o Signori, che pien di gioia canto.


E come non cantare, se quando avrò purgato
Le umane debolezze, in Cielo andrò beato?


Vivendo nel gran Mondo, e a sinistra e a destra
Piegai troppo leggiero qual canna e qual ginestra.


L'alto Fattore è buono più assai che non si crede,
Ma non ci voglion debiti per essere suo erede.


E per grazia speciale d'avere, Ei si contenta,
Dal reo soddisfazione pria ch'è sua vita spenta.


Pesaro dunque sempre, dirò, sia benedetto,
Ch'entro le sacre mura mi diè dolce ricetto.


Addio, abito vecchio, un nuovo vuo' vestire,
Come appunto la biscia fa per ringiovanire.


E non appena Dio m'avrà creduto degno,
Mi chiamerà all'istante al suo beato Regno;


Così la vita mia, che ognor nuotò fra i guai,
Lieta sarà per sempre senza mutarsi mai.


Non vogliate, o miei cari, dirmi: Non era questo
Per fausto di un discorso, anzi che allegro, mesto.


Almen conoscerete cosa ebbi, ed abbia in mente,
Mentre la lingua tocca ove più duole il dente.


Prosperitade intanto a tutti presagisco
Nella terra e nel Cielo, e senza più finisco.


F. C. n. 42.







TIPO FISICO-MORALE DI P... L...
QUI RICOVERATO.

Al primo aspetto
Chi ti vede, saria
Costretto a dir che a te manca l'affetto;
E male s'apporria;
Chi invece spesse fiate,
Sotto ruvido vel, palpitan lene
L'anime innamorate
Che s'accendon, riscaldansi nel bene.
Così rosa dal petalo,
Invisibile quasi,
Mette l'effluvio dai raccolti vasi
Come dal gelsomino,
E i dilicati odor dell'amorino;
Nemico a tutti i giuochi,
Di Venere, di Bacco indarno i fuochi
Ti soffiano; la cute
È di tal forza, che sembrano mute
Le vezzose lusinghe... Sei di pietra,
E invano a darti il fiato spira l'etra.

M. S. n. 365.



OSSERVAZIONI E STUDII BIOGRAFICI.

Per un attento scrutatore, questa massa di gente presenta un curioso spettacolo e un largo campo a profonde meditazioni. Abbiamo trattato quest'argomento altre volte, ora lo faremo più diffusamente.

Tacendo di coloro che si occupano nelle diverse officine, dirò che la maggior parte dei ricoverati passano la lor vita camminando, o sdrajati per terra specialmente al sole, beninteso nell'inverno, un'altra parte è dedita al giuoco delle carte, molti infine si perdono in giuochi futili, per esempio a pulir sassi, a rotolar bastoni sul suolo, a raccogliere cenci, carte od altro, un gran numero non pensa che a mangiare e, a dire il vero, anche fra di loro vi sono i buoni e i cattivi, i furbi e gli stupidi. Ne ho notati vari che meritano speciale attenzione; tra gli altri un certo D... che passa il giorno discorrendo come se fosse alla presenza di cento mila persone e legandosi, continuamente, una calza.

Un gobbo, vero Viscardello, che è bugiardo, ladro intrigante, maldicente, impostore, insomma ha tutte le migliori qualità, sta ora studiando la parte che dovrà rappresentare quando incomincieranno le rappresentazioni del Teatrino in via di formazione. Temo però che adoperi quei fogli per tutt'altro uso; è tanto birbo !

Un terzo nativo di F., milionario, vuole andare in America, costruir macchine, impiantar fabbriche e sta sempre qui.

Un altro fatica immensamente a disfare pezze di lana o di tela, per fare dei gomitoli, che poi raduna nel vuoto di una canna.

L'abitudine di raccogliere tutto quello che trovano è generale, e tutti sono appassionatissimi per il tabacco.

F... è un gran predicatore, dalla mattina fino alla sera, tenendo le carte in mano a rovescio. Certo Michele, di cui ignoro il cognome, ride sempre e non parla mai, si fa rosso rosso come una bragia senza causa apparente. C. Antonio, addetto al servizio della cucina, sta sano qualche tempo poscia cade in furore, ed allora urla come una bestia. G... pieno di scrupoli religiosi non parla che di mangiare e di chiesa. Giovanni C... che non sta mai fermo, ha la manìa di legarsi sempre, ora si lega le mani, ora il naso. N... giuoca ognora con dei bottoni e dei fili, come i ragazzi. Il Generale napoletano è capo di un esercito fantastico. L... Francesco, detto Fagiolo, è maniaco per il giuoco; impaziente in tutte le cose. Boccaccia detto Boccalini, già frate, non lascia mai in pace nessuno e spezza tutti gli oggetti che gli capitano, cerca di bastonare, tirando calci pugni e schiaffi.

C... di Fano, uomo di bel aspetto, fa sempre dei discorsi molto vaghi, passa il suo tempo nel servizio di scuderia, essendo già stato soldato di cavalleria. De A... di Rimini ha la tendenza al furto, ruba tutto quello che gli capita. Matteo M... addetto ai lavori dei pensionati sta sano qualche tempo poi si mette a urlare come un demonio. C... preso da fissazione melanconica è concentrato e non parla quasi mai. S... G. discorre sempre solo, sta da sé, improvvisa versi fingendo voce da donna. Giuseppe di Rimini, ammalato nei piedi, è ostinato, vuol sempre tener le scarpe in mano. Tombari, detto la Giannetta, epilettico conserva i suoi oggetti con preziosa cura, permaloso, di naturale impetuosissimo. Gasparino famoso dilettante d'immondezze.

Il Moro, secco che pare una mummia, curvo nelle spalle, è sempre sporco fino ai capelli, per quanto sia lavato. Basilio da non confondersi con un altro Basilio, che descriveremo in appresso, sempre taciturno, cerca di menare terribilmente se qualcuno lo disturba. L'altro Basilio poi non parla mai. Pacifico, zoppo, si dà l'importanza d'un re, perchè ha le chiavi dell'orto e s'ingerisce nella custodia dei panni sporchi; è superbo, avaro, bugiardo e ladro nel giuoco. G... raccoglie cenci che conserva nelle saccoccie. R... di Rimini epilettico, sempre avido di mangiare si digerisce sei pagnotte al giorno quando se le può procurare.

B. C. n. 18.



LA FAMIGLIA È CRESCIUTA.

Un nuovo ospite, nostro, qui giunto da due mesi è C. O... di P. È desso un grazioso originale di circa 40 anni, irruente, parlatore eterno, di umor sempre gajo, porta il cappello calcato sull'occhio e un lungo soprabitone, il quale coll'aggiunta di un pajo di staffe, potrebbe risparmiargli l'incomodo di mettersi i calzoni; fuma tutto il giorno, mangia e beve da militare e guai a chi s'attenta di non ubbidirlo, diventa furibondo; poveretto si crede un grand'uomo, possessore di tesori incalcolabili e potentissimo: vorrebbe mandar ognuno di noi alle case nostre, è allegro assai, 'ma però quando parla grida cosi forte che lo si sente alla distanza di quaranta passi.

Bello poi fu il suo arrivo qua dentro; appena entrato nel cortile si guardò intorno e dandosi un'aria della massima importanza, volle visitare se nulla s'era mutato da una precedente sua visita in poi; pare ne rimanesse abbastanza soddisfatto.

Era bello altresì il vederlo con quel portamento da diplomatico, sembrava veramente un Sindaco nel grave esercizio delle sue funzioni.

Promette impieghi a bizzeffe, essendo egli ministro di non so qual regno, davvero che non gli manca che una carrozza a due cavalli, il moro ed un sonatore di tromba per essere in perfetto assetto.

Io non intendo però con ciò di deriderlo nella sua sventura, che più dì lui sarò ridicolo, ma siccome sembrami felice, ed io nol sono, mi permetto tali riflessioni.

Quando racconta le sue sventure è veramente ìnteressante; cambia tuono di voce, ammicca degli occhi, poi ne chiude uno, finalmente si batte il petto in aria di grande soddisfazione, e vociando si getta sul sofà. Tutto questo però non gl'impedì mai di essere preciso all'ora del pranzo ed a quella della cena. Si vede che anche le rimembranze del passato non alterano punto il bisogno del suo stomaco. Lui beato.

B. G. n. 18.



SONETTO.
AMORE.

Sublime fiamma delicata e pura,
Ardente fuoco dell'umano core,
Anima e vita d'intera natura
E' quell'affetto che si chiama amore.

Solleva al Creator la creatura,
L'egro conforta che languisce e more,
Fino alla tomba dentro lui perdura
E gli lenisce ogni mortal dolore.

Amor di patria diede forti e prodi;
L'amor ci rende la vita lieta;
Amor già strinse d'amistade i nodi.

E allor che il fine il Creator decreta
E del morente il singhiozzar sol odi,
Amor ne guida alla celeste meta.

B. G. n. 18.



BIOGRAFIA DI UN TALE NON MAI DESCRITTO.

Uno degli individui più graziosi di questo luogo, ed in pari tempo alquanto ributtante pe' suoi sentimenti bassi e triviali, si è un cotale nativo di C.; vogliamo tessere, potendo, in breve la sua storia; poscia parleremo delle sue qualità fisiche e morali. Ex impiegato, egli ebbe molte questioni con un suo capo ufficio, dicesi che gli attentasse alla vita con un coltello, perocchè fu arrestato e tradotto alle carceri giudiziarie dove stette qualche tempo, sempre mostrando le sue originalità. Fra le altre stette cinque giorni senza mangiare, e poi in un sol giorno si mangiò il vitto dei cinque giorni che si era ammassato in cella.

Sortì dalle carceri assolto nel giudizio, prese a nolo un cavallo e disse al vetturino che sarebbe andato a Bologna poco distante dal suo paese. Viceversa poi decise fra sé di andare in Ancona. Ma giunto a Pesaro e non potendo pagare il locandiere, presso cui aveva passata la notte, per mancanza di danaro, rimase in pegno all'oste egli e la sua cavalcatura; e la polizia che vuol mettere il naso da per tutto, s'intromise anche in questa faccenda. Sequestrò cavallo e biroccino e lo mandò a C. ... al suo padrone, ed il protagonista come pazzo fu fatto mettere al Manicomio.

Vi stette molto tempo e finalmente sembrava guarito, per cui venne il fratello a prenderlo. Sortiti insieme con un pretesto qualunque, quando fu fuori della porta della città, tornò indietro, rientrò nel Manicomio, e non volle più tornare a casa, lasciando il fratello con un palmo di naso.

Si alza alle otto di mattina; suo primo pensiero è quello di procurarsi il tabacco, sua passione predominante, per cui si pone, in fazione innanzi alla porta di chi lo dispensa.

Quando ha ottenuto l'intento sale pian piano le scale facendo la posta al caffè.

Qui si è il bello: si schiude la porta, entra il cabaret; i suoi occhi allora schizzano fuori dall'orbita, agguanta una tazza, e la più grande se è possibile, e ruba se può il caffè degli altri, non mai sazio: noja il cameriere che lo dispensa, il quale stanco dalla sua importunità, alle volte lo manda in quel paese. Finalmente, si alza dalla tavola dove ha mangiato a quattro ganasce e si adagia su di un divano per digerire.

Vi sta sino alle dieci circa, scende di nuovo le scale, e colle carte in tasca, suo uso abituale, va nel cortile dei comuni per pescare qulalche merlo cui vincere alcuni soldi; se no si contenta dì zigari e tabacco; s'industria in ogni modo ed anche segnando le carte. Al suono del pranzo è inappuntabile: mangia senza profferire parola, col naso sul piatto, annasando grandi prese di tabacco, col quale condisce tutte le vivande. Finito il pranzo si adagia di nuovo, poi si pone a passeggiare pian piano pei corridoi; bello poi è il modo con cui cammina. Fa tre passi, quindi si ferma mettendo una gamba avanti ed una indietro, nella posa di un consumato ballerino. Torna al cortile dei Comuni, e giuocando passa la giornata sin a sera. Finalmente attende la cena, e in antecedenza si apposta alla sala da pranzo dei medici per poter beccare qualche avanzo.

Le sue passioni predominanti sono il giuoco, il tabacco e la gola. Straniero a qualunque sentimento umano, non conosce che avarizia ed egoismo: il suo Dio è l'interesse; i suoi pensieri, i suoi comodi. È avaro al punto che per un pezzo di carta si fa pagare un soldo. Disonesto sino all'estremo, ruba quello che può, zigari, tabacco, e carta, e commestibili.

Veste molto alla buona, ed all'inverno indossa un famoso mantello che gli serviva quand'era militare. Mesi sono era stato colto dalla smania di andarsene a casa, per lo che lo si vedeva camminare pei corridoi con tre o quattro involti sotto le braccia ed un grande ed altissimo cappello a cilindro in capo. Ora veste con lunghi calzoni ed un paletot della stessa stoffa fatta da un campestre sartore. Qualche rarissima volta gli salta il ticchio di leggere un articolo sul giornale; allora estrae gli occhiali, se li pone sul naso e dà principio.

Serve come un scrivano ad un tale, ma ha dichiarato di esserne stanco perchè non è pagato. Ha altre cattive tendenze, di cui è meglio non parlare, perchè la morale non ce lo consente.

È un individuo originale; sì, ma se tutti gli uomini gli assomigliassero la società crollerebbe dalle fondamenta, poichè e scienze e arti sarebbero perdute. B. G. n. 18.



"Egregio Sig. D...

"Questa mattina l'ho disgustata, non volendo prestare l'opera mia col fare la scuola. Sappia che io feci scuola dal 55 al 66 e che provai tali e tanti dispiaceri, che non posso più sentirmi parlar di scuole senza raccapricciare. Dopo maritata rifiutai più volte la nomina d'Ispettrice per non aver ragione a mischiarmi nelle scuole. La ripugnanza ch'io sentiva per le scuole, non derivava dal buon fine di compartire l'istruzione, ma dall'essere l'istruzione così guasta, mal intesa e corrotta, che le scuole mi parvero luoghi di supplizio piuttostochè trattenimenti utili e dilettevoli come spiega la parola stessa di scuola.

"Io non desiderai in vita mia che la pace, e la pace non trovai che nella sola mia famiglia. Una forza superiore mi privò anche di questa pace e mi condannò ai più fieri assalti e di corpo e di spirito. Io, nata con animo il più sincero e liberale, non trovai intorno a me che finzioni, ipocrisia, mala fede. Sentii dentro di me i mali che affliggevano la mia patria, il mondo intero: e tutto cio deriva dal manto più o meno ipocrita di ogni religione.

"Passai in rivista le religioni e le studiai. In tutte trovai principî buoni, morale guasta. Vidi la nostra cristiana religione talmente mascherata, falsificata e guasta, che finii col persuadermi che tutto fosse impostura; la rinnegai, ma mentre io la rinnegava la studiava e ne ricercava le massime in tutte le regioni del globo. Cristo si manifestò a me, ossia io fui attratta dal suo spirito magnetizzatore e fui creduta pazza. Ma, non è forse stato anch'Egli creduto fanatico, e peggio?... - Egli; il più filantropo uomo del mondo !... Quegli, che non voleva e non cercava che il bene, dei suoi fratelli ? Egli, che la storditaggine umana fece morire sul fior degli anni, dopo di aver tanto sofferto!!... ..........................................................

"Tua Sorella Y. X." n. 21.



A CHI M'INVITAVA A PRANZO.

Nessun si meravigli se accettai l'invito
Dell'ottimo Dottore; nessun mi creda ardito,


poichè se all'appunto venni al refettorio,
Non fu pel bicchier solo, ma fu per l'accessorio.


Cioè di rimanere per tutti i dì contento,
Nell'essermi accordato mezzo bicchier d'aumento.


Ciò può il signor Dottore, collega al Direttore,
Che quando è necessario comanda a tutte l'ore.


E già spero che dica, usando del potere:
"Mezzo bicchier d'aumento Don Checco deve avere."


Allor mi verrà forza a scriver la mia vita,
E senza interruzione, finché non l'ho finita,


Sebbene per finirla occorrono degli anni
Per esser stata piena d'accidenti e di affanni.


A bere altro tantino, offende forse o tocca ?
Sol che lor chiudan gli occhi ed io apro la bocca.


Perdonino, Signori, ammaestrati sanno
Che è permesso insanire una sol volta all'anno.


S. F. C. n. 584.



SONETTO
MEDICINA DI SALUTE.

Non latte al mattin primo ! ma due fette
Sode di buon prosciutto e di salame,
Con foglie d'insalata all'uopo elette
Che tolgon l'appettito e metton fame.

S'intende: masticar la refezione,
Facilitata da un bicchier di vino
Che sia spillato da bottiglie buone,
Di sapor tondo, secco e non di spino.

A mezzogiorno, lesso e peperoni,
Broccoli, erba fritta e un molle arrosto,
E per dolce, un solluchero a citroni.

Nella sera, un gelato in brodo caldo,
Un petto brillo di gallo in arrosto
E più vino che acqua... e il corpo è in saldo.


M. S. n. 365.



LA CONTROVOLONTÀ.


La controvolontà è una cosa terribile, ed io posso parlarne, pur troppo, con esperienza, poichè mi ha rapito al mondo ogni compiacenza, e m'ha cangiato la vita dolce e soddisfacente di prima, in un peso amaro e tormentoso. Ecco di che si tratta in sostanza. L'uomo a questo mondo, per vivere davvero, non basta che mangi e dorma, bisogna che dia una potente direzione alle proprie facoltà; bisogna che abbia uno scopo all'esistenza; che le proprie occupazioni lo soddisfino davvero; per trascinarsi malamente, penosamente intorno, insensibile ad ogni dolcezza della vita, è da preferirsi mille volte la morte, od il non avere la cognizione di sè stesso. E così appunto accadde di me, che abituato alla vita dolce e tranquilla, mi vidi d'improvviso strascinato in un turbine di violenti dolori; il mio cervello scosso da tali stravaganze si rifiutò di procedere come per il passato; più non potei pensare liberamente al fatto mio, e ne nacque appunto la controvolontà ossia l'inceppamento alla volontà naturale dell'uomo, l'impossibilità di operare e di agire, come se una forza materiale legasse l'individuo. Io non ho impero sufficiente su me stesso, per dare la direzione che vorrei alle mie azioni; da ciò ne nasce lo sgomento, il crepacuore, il tedio della vita. Da principio ho cominciato a provare un'inquietudine vaga, un peso tormentoso; in seguito questa forza crebbe, si fece più violenta, più prepotente, in modo da paralizzarmi ogni compiacenza e ad esser costretto a passar le ore nel tedio più angoscioso. Di notte non posso dormire; il più delle volte m'addormento verso un'ora o alle due; e la giornata per me non è altro che una tormentosa apprensione, perchè io non so assolutamente che fare di me, dove cacciare la testa, quale direzione dare alle mie idee, sempre in causa della controvolontà.

Sento a parlare di felicità domestica, di compiacenze dell'anima, di soddisfazioni di amor proprio, di affetto reciproco fra le persone; ma io non posso provar nulla di tutto ciò, misuro angosciosamente le ore della giornata, e tutto il mio studio consiste nell'annoiarmi meno che sia possibile. Perciò io pregherei che si producesse una reazione violenta nel mio cervello, e che mi facessero rivedere la famiglia. Una scossa benefica potrebbe, giovarmi moltissimo, un'emozione violenta dell'animo m'ha rovinato, ed un'altra emozione, di genere differente, potrebbe giovarmi. Sono tanti anni che non vedo la famiglia, ed il signor Direttore comprende che cosa stravagante e vergognosa sia questa; io assicuro che se ho fatto qualche stranezza, ciò dipende dalla fatalità a cui sono andato soggetto, non già dal mio carattere, che è sempre stato ottimo; e devono tenere in considerazione anche ciò.

L. M. n. 110.



I lettori, delle perizie mediche del Bar. Bonfanti Tarchini, ricorderanno quegli stupendi versi, dettati da un pazzo del suo privato ospizio, la Senavretta, ch'egli citava nel processo Agnoletti:



AD UN UCCELLO DEL CORTILE.

Da un virgulto ad uno scoglio,
Da uno scoglio a una collina,
L'ala tua va pellegrina
Voli o posi a notte e dì.

Noi confitti al nostro orgoglio,
Come ruote in ferrei perni,
Ci stanchiamo in giri eterni,
Sempre erranti e sempre qui !

CAV. Y.



Ecco cosa mi scrive, ora in proposito, l'egregio amico Tarchini, suo curante :

"Le belle strofe alludono al gran cortile del comparto uomini, con in mezzo una gran pianta, ove talora passeggiano molto a lungo i malati, girando sul marciapiede di pietra che sta intorno al cortile stesso. L'autore che dimora qui da 20 anni, si crede cavaliere, principe, ecc.; vede in tutto del mistero, continuò per anni a voler sempre toccare colla sua pipa le chiavi del direttore, ama essere attillato per quello che può, e si picca di bei modi. Disegna, talora bene, talora a scarabocchi, quando non copia ma inventa; e sempre cose allusive a certi misteri che ha sempre in testa."

È curioso, che, toltone quel giorno, costui, che è uno dei più assidui scribacchiatori, dettò prose e versi men che mediocri, scorrettissimi, e che alludono, con convinzione profonda, a quei sogni vanitosi, i quali, egli stesso in quei versi flagella, come può vedersi da questi frammenti, raccolti a caso fra i suoi manoscritti.

Bestia o uomo, per un Capello
verso la mia decorazione d'onore
che fu baciata dal Capellajo -.
Casati! onde voglio passeggiare
a piacer mio perchè ho il diritto
per legge che voi lo sapete senza
dubbio ! il suddito con la vostra chiave!

Del resto, che anche nello scrivere quei bellissimi versi perdurasse nel suo delirio ambizioso, ce lo dimostra la firma cui è appicciccata, indebitamente il nomignolo di cavaliere.

Quell'elegantissimo scrittore che è il nostro Carlo Dossi mi regalava un volume di curiose poesie dettate da un suo amico, sacerdote caduto in delirio; ne estraggo questa:


I GATTI ALLA SENAVRETTA.

Qual del deserto sulla sabbia ardente
All'arabo lontan dal patrio ostello,
È compagno fedele il buon cammello
Che par della famiglia anch'ei parente.

Così in questo deserto dispietato
Ove geme l'oppressa libertade,
Quattro gatti han di noi tanta pietade,
E a noi prigioni sempre stando al lato,

E colle smorfie rapide e grazïose
E col posar delle lor pancie care,
Che son ai nostri tatti sì gustose,

Colle gentili costumanze rare
Infra gli uomini ancor, colle vezzose
Lor forme, ci fan l'ore meno amare.


Non posso finire senza oggiungere [sic] un sonetto che pubblica or ora la citata Gazzetta di Livi.


Fatemi, o Direttor, la carità
D' interessarvi un pocolin di me,
Spiegandomi un po' ben come si fa
A far da savi, quando pazzi s'è.

Poi mi mettete nella via che va
A casa mia od in altra se ci è,
Che mi conduca in santa libertà,
Che apprezzo più del titolo di re.

Scrivete a mamma, e ditele così:
Che mi venga a pigliar presto se può,
Che sanerò per magica virtù.

Perchè se aspetta pur che venga il di
Del giudizio, davvero io non lo so
Se a casa mia vi tornerò mai più.


Confrontando questi lavori letterarii con altrettanti di delinquenti, si osserva in ambedue una tendenza grande ad esprimere in versi ed in rima (l) il proprio pensiero, a parlare di sè stessi, dei compagni, ad autobiografare, abbandonandosi, senza ritegno, alla fiumana delle passioni specialmente ambiziose ed erotiche; ma le espressioni dell'amore sono più artificiate nei delinquenti, nei quali ultimi trovi maggiore la coerenza, ma più scarsa la forza creatrice e l'originalità, e troppa è la copia di quelle minuzie personali e locali che interessano più l'autore del lettore. Negli scritti dei pazzi le impronte del delirio si travedono nelle assonanze e nei bisticci, che alle volte fungono da ragionamenti e nelle ripetizioni di frasi, e nell'uso di parole tutte loro speciali o nella firma: manca quella politura estetica che viene dalla lima; ma la frase tagliente e vigorosa scolpisce, sicchè, sempre o quasi sempre, eguaglia, e non di raro, supera gli effetti dello studio e dell'artifizio.

In genere i poeti abbondano nei manicomii più che i pittori, i quali, invece (forse per l'abuso degli alcoolici), spesseggiano, assai più, fra i delinquenti. Chi percorse la lista (pag. 31, 32) dei molti uomini celebri impazzati, si sarà meravigliato anche (e un giovanetto me ne fece prima avvertito) del gran numero di maestri di musica, che vi predomina; ciò può spiegarsi per esser la creazione musicale più legata agli affetti, o meno al mondo esterno, di tutte, quasi, le manifestazioni del pensiero, e quindi più bisognosa delle fervide, ma esaurienti, commozioni dell'estro.

(l} Vedi il mio Uomo Delinquente, Milano, Hoepli, 1876, pag. 108 a 116; e la Rivista Europea, 1876.







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