I SONETTI DEL FUCINI (1)

di Edmondo De Amicis

NELL' alta Italia non si diffuse rapidamente la popolarità dei sonetti in vernacolo pisano di Renato Fucini, che fecero tanto rumore in Toscana e in particolar modo a Firenze. Questo accadde, credo, per due ragioni che non hanno che fare col loro valore artistico. La prima delle quali è che la maggior parte di quei sonetti essendo una pittura fedelissima del popolo di Pisa, è difficile che i non toscani, o chi non è vissuto qualche tempo in Toscana, ne riconosca alla prima il pregio principale che è la verità. L' altra ragione è che, sebbene le differenze fra il vernacolo pisano e la lingua comune siano leggerissime, chi non ha l'occhio esercitato a quella ortografia, incontra, da principio, molte difficoltà di pronunzia che rendono la lettura faticosa, e svogliano dall' andare innanzi.

1. Queste pagine che noi mettiamo qui come prefazione furono scritte anni sono da Edmondo De-Amicis e pubblicate in un giornale letterario di Torino.
Nota dell' Editore.

Ma siccome le difficoltà della lettura spariscono, quando si legga attentamente, a voce alta, una ventina di sonetti; e il volgo pisano, sotto la scorza, è come tutti gli altri volghi d' Italia, così, o credo che i sonetti del Fucini potranno esser gustati in Piemonte e in tutte le altre provincie del Regno; e per questo mi pare opportuno di farli conoscere, dicendo anche qualchecosa dell'autore, che conobbi a Firenze, quando fece la sua prima comparsa nel mondo letterario.

I sonetti del Fucini sono piccole commedie o piccoli drammi, nei quali due, tre e fin quattro personaggi non solo parlano, ma operano, si muovono, spariscono e ritornano come in una vera commedia. Sono buone donne del popolo, operai, guardie nazionali, pescatori, giurati, studenti, magistrati, bambini, preti, accattoni, monelli, che discorrono delle loro faccende, si lamentano delle tasse, sparlano del governo, giocano al lotto, patiscono la fame, si canzonano, s'insultano, si picchiano, si soccorrono, si consolano; svolgono, insomma, dinanzi a chi legge, in cento sonetti, tutta la vasta e svariatissima tela della vita del popolo, come pochi grossi romanzi popolari lo fanno. Strafalcioni madornali e verità solenni, scempiaggini grossolane e arguzie finissime, buffonate ignobili e tratti di cuore sublimi, feste clamorose e scene di disperazione che fanno piangere, bestemmie, oscenità, colpi di coltello e serenate amorose: v' è un po' d'ogni cosa. V'è ritratto il popolo con tutte le sue ingenuità, le diffidenze, le superstizioni, le astuzie, la cocciutaggine; colto con sagacia maravigliosa in tutte le più sfuggevoli espressioni della sua indole, in casa, in piazza, in chiesa, al teatro, in tribunale, nelle tribune del parlamento; sorpreso a sdottorare di politica e di scienza, e a criticar leggi e istituzioni; fatto parlare con tutti i suoi idiotismi, colle sue storpiature, col suo linguaggio sfrenato, strapazzato e potente. E sono anche letterariamente sonetti nuovi. Vi si sentono (espressi con parole imitative che fanno parte del verso) ogni sorta di rumori, come pugni sui cappelli a staio, patte di gente in terra, tonfi di pietre nell' acqua, suoni di campane, scoppj d' applausi, guaiti di cani, fucili che cascano, sottane che si stracciano, vetri che si spezzano. Vi sono versi stupendi presi belli e fatti sulle labbra del popolo, proverbi incastonati in un verso con un garbo ammirabile, e che paion buttati là senza pensarci; fiori di lingua viva, bonnheurs [sic] d'expression, come li chiama Vittor Hugo, profusi, non un riempitivo inutile, non un luogo comune, non una slavatura rettorica; tutto sangue; e oltre a questo, una facilità di verso e una spontaneità di rima che non si può immaginare maggiore.

L' apparizione di questi sonetti, a Firenze, fu come lo scoppio d' un fuoco d' artifizio. I primi giraron manoscritti ed eran tutti faceti: i serj vennero dopo. Qualcuno li leggeva nelle conversazioni, a mezza voce, in un canto, e la lettura era interrotta ogni momento da uno scroscio di risà che faceva accorrere con curiosità tutti i presenti. Da principio si diceva soltanto che l' autore era un giovanotto di spirito; poi si cominciò a dire che aveva molto ingegno; e infine si riconobbe che era un poeta vero, originale e potente. I sonetti passarono di casa in casa, dalla casa nei caffè, dai caffè nei giornali. Ne facevano propaganda, recitandoli ammirabilmente, il Giacomelli, il medico caratterista che guariva il Giusti dalla malinconia; il Giorgini, lettore magistrale; il Foresi, antico direttore del Piovano Arlotto, uno dei più arguti e dei più ricchi linguisti della Toscana. Si dicevano fra le brigate, a tavola, in campagna, in mezzo a gente d'ogni ceto, ed eran capiti e gustati da tutti, e da per tutto spargevano buon umore e raccoglievano applausi. E si leggevano pure, con qualche omissione e qualche cambiamento, nei salotti aristocratici dove facevano sentire un soffio fresco e sano d' aria popolare. Gli uomini di Stato ascoltavano le tirate mordaci dell'operaio, i ricchi udivano i lamenti della miseria, le signore trovavano ad ogni verso una buona occasione di far vedere, senza sforzo, i loro bei denti bianchi; e in molti luoghi dove era di moda il riso misurato e freddo che provocò il verso acre del Giusti, si tornavano a sentire quelle larghe e lunghe e sonore risate, che vengono dal fondo e fanno bene all'anima e al corpo.

E tutti domandavano chi fosse questo poeta.

Questo poeta era un ingegnere.

Il Fucini aveva ventisette anni, era nato a Monterotondo nella maremma toscana, era vissuto qualche tempo a Livorno, a Empoli, a Vinci, a Firenze, aveva studiato a Pisa; non aveva mai scritto altro che versi molto liberi, per rallegrare le ribotte degli amici bontemponi, nè s'era mai accorto d'esser poeta, e si maravigliava molto di sentirsi dire che lo era. Siccome era allora ingegnere del Municipio di Firenze, lo vedevo sovente per le vie della città in mezzo a una turba di muratori e di scalpellini, e aveva quasi sempre sotto il braccio il disegno d'una casa o uno scartafaccio pieno di cifre. Faceva i suoi sonetti a ore perdute, alla lesta, perchè non aveva tempo da perdere. Se non gli riuscivano in venti minuti, li lasciava andare. Concetto, dialogo, verso, tutto gli balzava fuori dalla testa fuso ed intiero, con un solo sforzo, quasi istantaneo, dell'ingegno. - Pigliava la penna quando smetteva il compasso, e misurava versi quando era stanco di misurare angoli.

Sulle prime, i suoi colleghi trovavano ridicolo che lui, ingegnere, fosse poeta. Tutt'a un tratto si invertirono le parti e i Fiorentini risero, perchè lui, poeta, faceva l 'ingegnere.

In meno di tre mesi il nome del Fucini fu popolare.

Io lo vidi le prime volte che compariva desiderato, e direi quasi, tirato in mezzo a quella che egli chiama nei suoi sonetti l' Alta signoria; da principio meravigliato e quasi diffidente delle lodi che gli piovevano da ogni parte; poi, soverchiato quasi da una contentezza che gli tremava nella voce e gli lampeggiava negli occhi; e se può chiamarsi invidia un sentimento che non esclude l'affetto, lo invidiai. Perchè dev'essere ben grande, benchè sia tanto breve, la gioia dei primi trionfi! Sentir sorgere ed agitarsi dentro di noi una potenza, un io novo e inaspettato che è oggetto di stupore e di ammirazione per noi medesimi; sentire che il nostro nome acquista al nostro stesso orecchio un novo suono, e aver quasi bisogno di domandarsi: - Son io davvero? - ; sentire che si porta dentro un tesoro, che si è stati soggetto d'una preferenza, d'una predilezione misteriosa; vedere nel viso delle persone che ci amano il sorriso d'una compiacenza nova, e tutti gli affetti di cui siamo l'oggetto, colorarsi della luce che brilla intorno a noi; ricevere i saluti inattesi di parenti ignoti e di amici dimenticati che fanno cenno da lontano per essere riconosciuti; trovarsi tutt'a un tratto a pari altezza con chi per lo addietro si guardava di sotto in su, e veder sotto la folla che poco prima ci soffocava; amare la società perchè il nostro amor proprio vi trova la soddisfazione dei suoi desiderj; amare la solitudine perchè s'ha quel tesoro da covare; nutrire una profonda certezza che la malevolenza, che non perdona a nessuno, farà un' eccezione per noi, e sentirsi inclinati ad amar tutti perchè nessuno ci ha ancora ferito; provar un piacere nell'essere umili perchè tutti ci esaltano, ed essere contenti di sè senza bisogno di ubriacarsi d'orgoglio; trovare i giorni e le notti brevi alla furia dell'opera; sentirsi dentro un tumulto che ci affanna il quale si risolve in una armonia che ci appaga; godere il presente e l'avvenire insieme; non pensare che bellezza, non vedere che sorrisi, non sentire che applausi, non aver bisogno che di vivere e non aver altro timore che di morire.... È uno stato dell'animo che non dura che pochi giorni; ma che deve essere quasi divino.

Ma per tornare ai sonetti, dopo averne accennato i pregi, non bisogna tacerne i difetti. Non pongo tra i difetti che non si possan leggere tutti in mezzo a un crocchio di signorine, poichè non tutti i libri son fatti per tutti; e a me pare, d'altra parte, che quando una parola o una frase illecita riceve il bollo dell' arte, casca, voglio dire, opportuna, necessaria, anzi, alla evidenza e alla efficacia del linguaggio, muti significato morale. E il Manzoni, infatti, sentì tutti quei sagrati e le altre licenze, senza aprir bocca per altro che per sorridere di compiacente ammirazione. Mi pare un difetto, invece, il dialogo di alcuni sonetti soverchiamente rotto e il verso troppo spezzettato, il che stanca l'attenzione e toglie al sonetto di produrre il suo effetto immediato. Altri sono, per me, difettosi, come il vero amico, per aver voluto che il sonetto rappresentasse un fatto, invece di esprimere soltanto un sentimento. Mi pare che in questo sonetto sia forzata un po' l'azione e che la chiusa giunga troppo affrettata. E in questo, come in altri pochi, è troppo evidente, e quindi non raggiunge il suo scopo, l'intenzione di dare una lezioncina di morale. Qualche volta l'ignoranza di Neri mi riesce un po' troppo ingenua. In vari punti le licenze del linguaggio sono forse troppo fitte, così che parendo pigiate, non riescono più spontanee. Il sonetto in cui si parla dell'uniforme dei soldati e dei generali, non l' avrei scritto, perchè mi pare che raccogliere certi improperj, equivalga ad approvarli; e non è sempre utile di dire tutto quello che si pensa.

Ma come si può arrestarsi su queste cose, in mezzo a tante bellezze di sentimento e di forma, a tanta verità, a tanta novità di poesia? La novità qualcuno volle contestarla, dicendo che il Fucini imitò il Belli. Il Fucini non aveva ancora letto, ne sono certissimo, un solo sonetto del poeta romano, quando giravan già per Firenze più di cinquanta dei suoi. Ma questo non monta; l'uno non rammenta l'altro, se non in qualche soggetto comune, e nulla più che per caso. Il Belli ha forse una facoltà d'osservazione più profonda; il Fucini mi par che l'abbia più rapida e più varia, che colga, cioè, una maggior quantità di cose e di aspetti in un punto solo. Nel sonetto del Belli v'è più unità; quello del Fucini è più animato. Il primo lascia forse apparir meno del secondo la ricerca dell'effetto; ma le chiuse di questo fanno prorompere in una risata più cordiale. In fatto di sentimento la morte del bimbo del Fucini non sta molto al disotto della disperazione sublime della madre romana che respinge da sè tutti i conforti del mondo; e in fatto di efficacia comica, i sonetti sui giurati e sulle guardie nazionali reggono il confronto dei più arguti del Belli. Il Fucini ha un granello più di pazzìa artistica. Il Belli è più padrone di sè. I sonetti, il Belli, li fa; al Fucini gli scappano; l'uno splende, l' altro scoppietta; Roma si ammira e Pisa innamora. La lingua mi pare più potente nel Fucini, lasciando da parte che ha sul dialetto romanesco la superiorità d'essere più vicina all'italiano comune. E oltre a questo, il Belli si giudica scegliendo fra le sue migliaia di sonetti, il Fucini su i suoi cento soli.

Ma che cosa sono, in tutti i paesi, i critici ad ogni costo e gli amici troppo ufficiosi! Il Fucini era venuto fuori con sonetti che nessuno s'aspettava, ch'erano una creazione sua, un privilegio, per così dire, del suo ingegno; e subito saltaron su i precettisti a insegnargli a fare i sonetti. Il sonetto era la forma in cui il suo ingegno s'era estrinsecato spontaneamente e quasi perfettamente; e da ogni parte gli si domandava perchè non tentasse le sestine, le terzine, le ottave. Scriveva in vernacolo; gli stavano ai fianchi perché scrivesse in lingua italiana. Gli venivan fatti i sonetti in venti minuti: lo consigliavano a pensarci sopra una settimana. Aveva fatto quel che aveva fatto, senz'altra coltura letteraria che quella di tutte le persone che si occupano di letteratura a tempo avanzato; ed ecco cento voci nasali a gridargli che impari la lingua, che egli sapeva già meglio di loro; che vegli sui classici, che faccia un corso regolare di studi letterarj. Tantochè il povero Fucini esclamava qualche volta con sgomento: - O povero me! M'accorgo ora che non so nulla! Che cosa potrò mai fare? etc. etc. -

E mi ricordo che una sera il Fucini era assediato da un drappello di questi maestri, consiglieri e monitori dell'ingegno, i quali gl'intronavan la testa, quando balzò improvvisamente nel crocchio un letterato vera mente insigne, al quale converrebbero i titoli di volteriano dell'arte e di miscredente delle scuole, dati da lui stesso al Manzoni; e parlò al poeta in questa maniera:

"Non dia retta alle chiacchiere di tutti questi signori. Ha imparato a fare da sè, continui a far da sè. Si chiuda nel suo piccolo mondo, nel suo modo di vedere, di sentire e di esprimere, e non vi lasci entrare i guastamestieri. Non faccia il sordo alla critica; ma badi che volendo strappare un difetto che importa poco, è facile portar via una buona qualità che importa molto. Guai se si lascia pigliare dalle paure e dagli scrupoli. Continui ad aver fiducia in sè stesso, la quale è nell'arte ciò che è in guerra il coraggio, senza cui la scienza e la disciplina sono un'elsa senza lama. Ella lavora sul suo, è in casa sua: corra, salti, strepiti, si sbizzarrisca, faccia da padrone. Ha cominciato a scrivere per piacer suo: per carità, non pensi al pubblico, alla letteratura, al suo avvenire, continui a scrivere con la testa libera e con il cuore tranquillo. Ella possiede un tesoro; lo difenda con le mani e coi denti. Se l'ispirazione le continua per quel verso, scriva diecimila sonetti e lasci gridare i seccatori. Infine studi; ma si ricordi che i suoi sonetti ha imparato a farli per la strada. Segua il suo genio, stia in mezzo al popolo, e fugga i letterati come la rogna".

Non so se il Fucini abbia seguito questi consigli, ma pare di si. Da qualche tempo in qua non ho visto di suo che alcuni sonetti nuovi in vernacolo (1) i quali reggono al confronto coi primi, ed alcune prose ispirate ad un'arte sana e casalinga, che mi sono sembrate vere e ricche miniere di lingua viva toscana (2).

Gli auguro che non gli segua quello che seguì ad altri, i quali, dopo il primo successo che li ha rivelati a sè stessi, si sono impigliati in una rete fatta con le proprie mani; e invece di lavorare col loro ingegno, gli hanno lavorato intorno; e non hanno più saputo toccar la molla che apriva lo scrigno dei loro tesori. Ma questo non seguirà al Fucini che ha la fortuna di vivere in Toscana, in quel paese artistico per eccellenza, con un piede fra il popolo e l'altro in una società colta ed arguta la cui conversazione è una critica che illumina, ingentilisce ed ispira. E forse un giorno l'Italia porrà il nome del Fucini accanto a quello del Giusti.

EDMONDO DE-AMlCIS.

1. Questi nuovi sonetti in numero di cinquanta furono aggiunti alla raccolta nella 5° edizione e successive.
2. Queste prose, edite da prima nella - Rassegna settimanale - furono poi raccolte in in volume e pubblicate dall'editore Barbèra sotto il titolo - LE VEGLIE DI NERI. -

Nota dell' Editore.

Ndr: Le note sono trascritte dall'edizione originale


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