Cavalcando il Sole

Versi liberi
di Enrico Cavacchioli
Milano, Edizioni Futuriste di "Poesia", 1914

Segnatura: Biblioteca Nazionale Braidense - 13.77.B.5



7!

7 mendicanti.

Stanotte son passati sul tappeto della luna
sette mendicanti ubriachi, avvolti in mantelli neri,
e al ritmo delle chitarre irascibili
hanno sghignazzato una serenata macabra: la serenata di tutti i paesi,
la cantilena di tutte le strade,
il comune richiamo dei viottoli e dei sentieri
con le sue modulazioni irresistibili:
quando la notte degli uomini cade

Sgambettavano sugli stinchi
di cicogna giapponese
urtandosi nei gomiti
a1 ritornello della canzone bizzarra.
E, se metteva in ognuno un chiarore fatuo, la chitarra
appoggiata sui petti stanchi
sembrava una loro anima astrale,
che, cadenzando il cammino,
in libertà passeggiasse in cerca del proprio destino.

Ma, senza posa, le mani
arborate dai mantelli di piombo,
tormentavano le corde roche,
raschiandole, a strappi, a trilli, a variazioni,
a strani garriti:
come ragni che s'arrampicassero
a foggiare la tela dei suoni
in inestricabili matasse.

Fermi un momento, i sette
mendicanti insultavano la luna
fissandola attraverso le ciglia
con le pupille velate d'alcool.
E tutto verde appariva nella loro meraviglia
il mondo, le chiese, i lupanari, la cuna
dei bambini, e la bara dei vecchi.
Ed una sola voce - ed erano sette! -
ritornava di rimbalzo a cantar nei loro orecchi.

Ma nessuna finestra s'aperse
al loro apparire,
e nessuno ascoltò le rauche voci perverse,
perchè sette erano i vagabondi
accordati nella serenata
coi loro sette istrumenti diabolici
e tutti gli altri erano soli.

Nessuno ha udito il concerto, se non io
col mio cuor podagroso
che sembra il cuore di loro!
Ma certo mi invidierebbero tutti coloro
che potessero ricostruire,
senza che fosse la paura, importuna
testimone, la musica commossa
di questi osceni fantasmi della miseria:
che s'ubriacano di raggi di luna
per la propria bontà rossa e per la propria grigia cattiveria!



7 ammalati.

Le finestre dell'ospedale, a quest'ora, sembrano occhiaie
di moribondi,
spalancate nell'alba ancora insonne.
Fuori, tutto è diafano, nebuloso, indefinito.
Anche la campana della chiesa, s'è messa la cuffia
per passeggiare il cielo, ed annunziare che i sette ammalati
vedranno sorgere un altro giorno.

Ma dei sette, qualcuno si lamenta e vorrebbe esser già morto;
Un altro, seduto sul letto, tiene i ginocchi fra le mani,
e ha gli occhi liquidi che non vedono.
Un vecchio tossisce, e il suo schianto sembra modulato
su di una grancassa fantastica. In tono minore,
la piccola voce d'un bimbo si affila sotto le coltri.

Un altro giorno, o moribondi!

Le finestre si rimpiccoliscono, ora che l'alba è già sorta,
e a poco a poco, sempre più sembra che si restringano,
perchè il sole le chiude
col fantasma di fuoco del suo cratere,
e le pupille nere
degli ammalati che lo desideravano
sembran tagliate via dalle palpebre ignude:

Nell'ombra, allora, scivolano e tornano
in un incubo lungo, le voci dolciastre
delle monache e degli infermieri.
Dietro qualche cortina si piange:
Oh, mamma! Oh, mamma! E tu sii maledetta
mamma che ci facesti pel dolore!....
Chi si ricorda più se la sua bocca
cantò le cantilene dell'insonnia
nelle sere d'inverno?
Ora lo spasimo sembra eterno.
Chi si ricorda più se le sue mani
consolatrici seppero buon odore di spigo?

Nell' aria c' è l'odor di cloroformio.
I sette ammalati si muovono in quel torpore
assonnati e pesanti;
non sanno più pregare,
non sanno più chiamare:
una nube s'ingiglia nei loro occhi
stanchi,
grava sulle pupille
ed inonda le fronti di sudore....

Ma stasera, se mai scenda davvero
l'ombra macinata della notte sorda,
spalancate, infermieri della vita
sette finestre!
E voi timide orchestre
notturne degli usignoli
intonate la nenia funebre!
E voi, uomini vivi
che credete d'essere liberi
fissate le vie senza fine dei cieli,
oltre i limiti umani:
e vedrete volar verso la morte
con l'ale aperte, come monoplani,
sette spiriti!....



7 scaricatori di carbone.

Quando i piroscafi sonnacchiosi
giungono nel porto, rovente di fuochi,
e tra le selve delle alberature
gettano l'áncora, immobili e stanchi,
s'aprono le ingorde fauci dei boccaporti
e sulle murate sette scaricatori di carbone,
con la vanga e le ceste, in una nube nera,
frugano il colosso del mare nella ventraglia.

Protesi contro il sole, gli enormi tarli scarniscono
le viscere del piroscafo, tra il cigolare
delle carucole e delle pulegge,
e il fischio del vapore che fugge dai cilindri:
unti di sudore, con dentature da negri,
occhi paurosi in cui il sangue si arrossa,
e mani che ghermiscono con artigli d'ombra:
sembrano gli eroi migliori della fatica.

Dicono: « Vi daremo il rantolo delle locomotive in fuga,
- o voli per le pianure seminate di città! -
e il movimento a passo di carica dei motori;
e l'inferno dei grandi forni dalle bocche avvinazzate;
e il ritmo delle officine galvanizzatrici della stanchezza;
e il fumo delle ciminiere che esplodono nel cielo!....

Noi siamo gli scialacquatori delle fiamme divine!
Una palata del nostro carbone anima la materia
più dello spirito che anima il cadavere degli uomini!
Inerti attacchi di leve si stirano in convulsioni
quasi umane; stantuffi lucidi di grasso,
sciabordano nei cuscinetti gonfi di vapore;
ingranaggi di ruote elastiche
scivolano nelle loro scanalature;
alberi d'acciaio turbinano nell'acciabattio delle cinghie,
più forti degli uomini che ne hanno il dominio!

La ferrea costruzione del mondo
s'agita nelle nostre mani di poveri
come un giuocattolo inconsueto.
Vicino a noi incomincia la sua febbre,
con la rabbiosa perfidia dei rimorchiatori
che solcano l'acqua nera di questo specchio di mare,
carichi della ricchezza che vi abbiamo lasciato cadere!...
E al gesto polveroso della nostra fatica
che si diffonde,
il mare, la terra e il cielo
bollono come una caldaia
sterminata!...

Se un giorno, stanchi del lavoro che ci fà poveri
ed arricchisce il mondo, noi, sette scaricatori di carbone,
sputassimo la nostra saliva alcoolica
in tutte le miniere della terra
perchè la terra avvampasse in un solo vulcano?
Vorremmo ben vedere, alimentare la fiamma che crèa,
a lampi di shrapnel e di cannonate!»



7 puttane.

C' è il languore orientale del ginecèo:
divani bassi infrangiati d'oro, specchi insidiosi,
fiammelle di gas che ondeggiano per gli aliti lunghi,
bevitori dal fiato verdastro, fumate bistrose di pipa,
risa grasse di gozzoviglia,
fragori di qualche stoviglia che si rompe,
e sette puttane accosciate.

Ognuna ha un atteggiamento diverso. E quasi tutte
sono sentimentali, nella sarabanda.
Un'orchestrina stonata, s'accanisce
a saltellare un valzer viennese:
Una volta qualcuna sentì il brivido infantile
d'una sua fanciullezza, nel ritmo
diverso.
Pianse, E ogni lacrima
lasciò il binario della corsa sulle guancie rosse,
Era l'autunno? Forse.
I tini colmi? Si ballava in un angolo dell'aia?
Passava a tratti il rantolo
della falce fienaia - per i prati?
Campani fiochi e assonnati
chiamavano il gregge disperso....

-Ma che valzer: noi balleremo il tango!
Coppie brutali si afferranno [sic]
per le braccia.
- Così! Così danzeremo!
E più desiderosa sarà la nostra maschera
di voluttà triste e di fango!

Nelle sete degli abiti passano brividi di carne,
e brividi d'inferno.
- Oh, fatta è la svinatura,
e chi beve alla nostra spina
non s'inebria!
Musica! Musica argentina!....

Le sette donne passano nel viluppo
confuso delle coppie:
hanno le capellature disciolte
e gli occhi accesi,
girano in un turbinìo
continuo di danza saturnina:
musica! Musica argentina!

Finchè riunite dalle loro treccie,
estenuate dalla danza folle
cadono a terra pesantemente
come un mazzo di cipolle....



7 vergini.

Io:
Andate, andate a farvi monache, Ofelie, pallidi
giacinti sfioriti in un orto autunnale!...
I vostri volti, di cera, rabbrividiscono, se mai
dietro le grate di un cancello io comparisca a guardarvi...
Eppure ci son le rose, diffuse in una pioggia
gialla, sul verde dei ferri che la ruggine corrode,
e foglie di rose cadono sui vostri occhi
e ve li chiudono: come ve li chiuderei
coi miei baci di febbre...

Io conosco tutti gli smarrimenti soavi
che vi fanno trascolorare, sotto ai veli candidi conventuali!
E il gesto delle mani che salutano,
e la voluttà, con la quale vi profumate d'incenso,
nella piccola chiesa, dove le suore passano
con lenti fruscii, inavvertiti: chiuse nei soggoli bianchi,
tenendo le braccia in croce sul petto sterile.

O sette ignote, lasciate che cavacchioli vi contamini!
Tanto il vostro pallore è solo apparente,
ed avete appreso nei silenzî del confessionale
come sono gli abbandoni che ci fanno divini...
Il suono, la luce, il tatto, il fiuto, il pensiero,
l'enormità d'ogni mistero,
e la gioia che s'irraggia
cercherò nella vostra verginità selvaggia:
le tempie mi martellano strane orchestre di gridi,
gli occhi mi s'annegano in abissi di viole,
mentre apparite in una cantoria
dove il mio desiderio vi inchioda con aghi di sole!

Le sette vergini:
Prendici dunque, incantesimo d'angue
con l'anima, la carne ed il sangue.
Ti attendevamo, eresia!



7 omicidi.

Perchè uccidemmo? Oh, le ragioni sono innumerevoli
come le celle che accolgono gli uomini della nostra specie!
Ma l'alveare umano ronza con lo stesso brivido nostro,
e tutte le mani si armano con le armi diverse
che conosciamo.

Ogni giorno, l'ora del nostro delitto suona senza tregua,
con un rintocco rosso ed infinito di pianto e di crudeltà.
Noi ci torciamo in una convulsione ridicola,
guardiamo dalla grata un piccolo quadro di cielo,
e se una rondine ci appare per un attimo
ci sembra un crocifisso....

Ascoltiamo il passo matematico
delle scolte che vanno nella notte
passeggiando pei muraglioni solitarî,
e il loro grido di allerta segna le ore,
come un orologio da torre.

Quando un carceriere sbatte le ferraglie
contro la grata lo malediciamo;
se in fondo alla nostra brocca
indoviniamo il fantasma dei morti,
cerchiamo che l'acqua che ci danno da bere
sia più torbida del consueto;
se le quattro mura di questa scatola chiusa,
son sorde, e infrangibili, ci sembra una reggia
quando sognamo ad occhi aperti
di vagabondare pel mondo....

Chi non ha ucciso come noi? Più di noi?
Tutti siamo omicidi! Sulla terra feconda,
il sangue nasce col sangue:
per ogni zolla che ne sia intrisa
germina più bella
la spica del grano; ed ogni ruota di macchina
che ne sia bagnata, gira come sotto la spinta
d'un lubrificatore!....



7 uomini senza cuore.

Nacquero con la primavera. Seppero i lunghi mattini
in cui l'aurora si strascica ubriaca di profumi,
corsero per ogni selva, navigarono tutti i fiumi,
ed impararono ad essere crudeli
perchè non avevano cuore.

Non avendo conosciuto un padre, si chiamarono fra loro
con nomi di belve, e vissero in libertà.
Risero delle femine ingannate nei tramonti,
e dei loro baci insidiosi da cui seppero liberarsi.
Nessun brivido d'amore li potè far morire.

Lottarono per l'istinto selvaggio che li guidava
e perchè il pugno era il re della loro rivoluzione:
avevano infatti formidabili braccia muscolose,
e torsi enormi che suonavano come gongs alle percosse.

E i loro gridi trovarono l' eco più strana
e la complicità più discreta.
Rintronarono sotto la volta delle nubi,
gemettero con le correnti, agli estuarî,
furono in ogni libera forza di perfidia
un inno di allegrezza....

Tutti gli angoli della terra e del cielo
ne rimasero pieni in un'onda sinfonica infinita
che vibrava per suo conto
all' aurora, al meriggio, al tramonto.
I fiori si spogliavano al loro passaggio,
le fontane traboccavano in rigagnoli,
ed era un sussurar di campane
lungo e monotono nelle fanfare del sole.

Il mondo era ormai saturo di loro,
e della bieca empietà beffarda,
che suonava a scrosci di risa:
però decise di ucciderli con una morte improvvisa.
Ed allora, ogni fiore ebbe un veleno ed una spina.
Il fiume ebbe una insidia,
le femine si chiusero nella veste,
l' aurora si tinse di sangue
ed il tramonto di lividore.

La protesta collettiva delle cose create,
parve abbattersi come un flagello
sui sette uomini senza cuore.
Le strade li confusero nelle traccie senza peste,
il vento ne smarì la voce,
e con l'eco la convertì nell'ululato
d'una bestia feroce....

E così si dispersero, una sera, senza guardarsi in viso,
i tiranni dalle sette diverse crudeltà,
per il timore di dover morire:
penetrarono nei borghi arcigni e nei vicoli della città,
distrussero le finzioni della loro poesia selvaggia,
e accaniti nei propri istinti spirituali
divennero, quelli che i preti sono soliti di chiamare:
i sette peccati capitali....


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