Versi liberi
di Enrico Cavacchioli
Milano, Edizioni Futuriste di "Poesia", 1914
Segnatura: Biblioteca Nazionale Braidense - 13.77.B.5
Inno alla crudeltà.
Crudeltà, dea madre, oracolo corrosivo del mio calendario,
se tu ami aprirti il ventre senza gridare,
e pungerti nei polpacci, e scorticarti la pelle,
accecare i tuoi occhi perchè vedano l'inconoscibile,
con la curiosità viziosa del più nuovo e del più doloroso,
io sono come gli uomini della mia razza
il piu [sic] legittimo figlio, che dorma nel tuo letto osceno.
Amo come te, abbattere le grandi foreste millenarie
che s'incendiano nel tramonto in ogni tronco, di carminio;
e sollevare i mari in un'onda di schiuma volubile,
e far soffrire gli uomini che la menzogna ammantella,
un contro l'altro, irragionevoli belve, dagli istinti di bruti,
partite come folgori a sgominarsi e a morire.
L'anima mia è tatuata di segni cabalistici,
in ghirigori che sanno la tua insensibilità:
vi leggeresti strane storie di cupidigie e di voluttà,
snodate in tre racconti, dei quali nessuno ha la chiave!
Io mi compiaccio a tormentare me stesso,
come un fakiro:
posso cucirmi le palpebre con una corda da vele,
e vedere lo stesso lo spirito mio
che veleggia in rosei mari perlari;
posso chiudere la mia bocca col peso di mille quintali
di silenzio,
e udire lo stesso la mia voce che si perde nell'infinito;
posso farmi tagliare le mani
e pesare la vita che mi circonda:
più son crudele verso di me e più son forte,
più semplifico la mia carne che non soffre
e più sono eterno!
Te, divina madre, sformata nella convulsione isterica
dei tuoi desiderî, che arroncigli nelle nostre volontà
la suggestione lenta della perfidia, e crei l'orrore dei mondi
che una legge fisica fà scaturire dalle fondamenta;
che sollevi gli uragani che corrono la terra ed il cielo;
che semini le epidemie maculate di tabe e di bacilli;
che flagelli la guerra coi suoi strumenti perfetti di morte,
e dissolvi ogni ordine e ogni regola
dai suoi cardini essenziali;
te sola riconosco nella mia voce e nella mia carne mortale!
T'ho sentito nel brivido delle macchine, lanciate come mostri,
ruggire nel rantolo sordo della loro fuga impassibile,
quando una leva si fermava di botto,
e l'ingranaggio gemeva
il pianto della propria immobilità stillando grosse goccie
d'olio minerale fetido e giallo.
Più tardi,
nel desiderio degli uomini che non seppero dominarle,
spasimasti, con un bramito, rosso di sangue e di stupore,
e i cieli furono pieni, nella tua vittoria turchina,
di aeroplani ronzanti sulla traccia dei venti oceanici....
Nessuno s'accorse se la tua ferocia fosse inumana,
poichè parve necessaria.
Ond'io esalto la ferocia, che si scaglia in me, contro di me,
ed arma la mia mano paziente e delicata, di femina.
Al tuo richiamo io posso
dimenticarmi d'essere stato concepito:
sono la creatura perfetta nata da un egoismo.
Prima di me non c'è nessuno e con me tutto finisce;
nel mio canto c'è la dilatazione di tutto il mio mondo;
nel mio grido c'è la disperazione bieca
di tutto il mio orgoglio...
Che m'importa di coloro che distruggono la razza
spalancando agli infermi le porte degli ospedali?
Io sono l'istinto in attitudine giovinetta di adorazione.
E come una bandiera m'agito al vento
per stabilire il regno della mia rivoluzione!
Rivoluzione.
Due trombe rosse strillano l'avancarica:
ecco la folla paziente
uscire dalle ciminiere,
scivolar dalle ruote dentate,
balzare dalle cinghie,
trapanare dai magli:
poltiglia liquida di sangue
che prende forma fuori dal frantoio dello sciopero.
È l'ora in cui ogni macchina ferma
respira brividi di silenzio
negli alveari vuoti.
Nell'aria è odor giallo di grasso.
Polvere di limatura
si posa in lucide traccie di compasso,
ed il tramonto accende fuochi vermigli
nei forni disseccati
rischiarando in una colata massiccia
colonne di luce livida,
arroventata in una divina cateratta.
Oceano di popolo,
Marea disordinata del terrore,
Maëlstrom d'ogni libidine,
Singhiozzo maciullato dal pianto,
Urlo, grande urlo di una sola bocca,
Pugno di un solo braccio gigantesco,
Testarda forza d'ariete e di catapulta,
Proiettile del disprezzo.
In piazza!
Le case hanno socchiuso le vuote occhiaie
delle finestre. Tanfo di ciurmaglia
svolazza fra gli stracci miserabili.
Le vie oscure, fatte ludibrio dalla tenebra,
tagliate via dal gorgo umano
che s'incalza, vomitano
purulente boccate di popolo.
E una bandiera rossa, inzuppata di sangue,
sventola l'eretico richiamo della raccolta.
"Aprite le chiese inutili!"
Stropicciar di piedi scalzi sulla pietra fangosa.
Mormorare di lingue incollate:
il cuore cannoneggia in bocca la sua paura....
- Occhi riarsi. Mani adunche. Sudore freddo....
Col sinistro crocchiare d'ossa di morto
s'abbattono le porte sante:
E Cristo appare sul vessillo popolare,
dalla rovina sbrecciata della chiesa travolta.
Orribile, il segnacolo della raccolta
sventola ancora nello stendardo sacro
macchiato del sangue più divino.
Il grido sordo dei conquistatori,
tenuto in gola in uno spasimo di disperazione,
gorgoglia nei diversi silenzi dell'attesa.
Si vuota la lugubre chiesa.
Le vie s'inchiostrano di popolo nuovo.
Crepita una fiamma nel turchino dei cieli!
Dall'infinito, in un imbuto di stelle,
si rovescia l'inferno sulla terra.
"Uccidete la scienza inutile!"
Altre porte scrosciano nel martellare dell'insidia.
Le biblioteche partoriscono volumi e tarli.
A morsi, gli uomini distruggono i libri
incorporando la dottrina che li uccide.
Sostituiscono i propri cadaveri infetti
nelle scansie polverose,
ed il carnaio viene amministrato
da un becchino ministeriale.
Ma nella notte è odore umido di montagna,
percorsa da lenti carriaggi
su mulattiere scolpite nei dorsi di macigno.
Giunge un'ombra di verde,
un filare di cascate d'acqua,
ed il ricordo di un albeggiare
in cui canta il gallo cedrone fra due nocciuoli e due faggi.
È una folata, che spazza
il fetido miasmo cittadino:
prima di circoscriverlo da vicino
nella sua quarantena pestilenziale.
Si spalancano i polmoni,
e s'armano le gole di nuovi gridi.
"Uccidiamo gli uomini inutili!"
Ansia di sangue sovrasta.
Si fiuta nel vento aroma di carogna.
Ogni mano ha un artiglio
per rapinare la propria giustizia.
Col cuore fra i denti, tenuto come un coltello,
gli uomini cercano 1a vendetta sociale.
Chi descriverà la vendetta?
Ti desideravo o ruscellare d'oro verde
scaturito dal forziere d'un usuraio!
Eri preda dei miei occhi
bella carne di femina che odio!
E le mie tasche e la mia carne
v'ingoiano!
La fanfara, ora, echeggia nel brusio minaccioso della notte.
A quando a quando un grandinare di mitraglia
spazza la folla, in carica musicale.
E la folla precipita
per i vicoli aperti dal cannone.
L'eco riporta le bestemmie
e i gridi delle donne in un rosario sconsacrato.
Ogni turba, tragica e saltabeccante
si sospinge nella corsa frenetica.
Volti di femina chiusi nei capelli, a lutto,
fasciati d'orrore e di lacrime
s'affollano in apparizioni istantanee.
Irsute barbe di bruto li inseguono nell'ombra,
fra la minaccia di due bastoni,
addentati da un mastino furibondo.
A tratti, frusta il cielo nordico
l'ala di una bomba, volante in mille detriti,
che, sciamando, si perde in una nube vermiglia.
L'oscurità partorisce i suoi fantasmi
all'angolo di ogni via solitaria.
Ecco, in agguato strana ciurmaglia di morti!
Torna dai sepolcri del mondo alla tregenda nuova,
e mastica nelle mascelle spolpate
sibilanti commenti pimentati di vermi.
Napoleone Bonaparte, conserva il ricciolo
dei capelli neri, sulla fronte ossea.
Sogghigna, dentro al mantello astrale che lo ricopre,
e la valanga ululante lo calpesta senza vederlo.
Si ricompone, risorge: diabolico e perverso.
Chi chiuderà l'incanagliato rubinetto
che continua a gocciare lo stillicidio della rivoluzione?
Muraglie di soldati sbarrano ogni sentiero:
s'odono sferrare i cavalli impazienti al comando,
e l'ombra, a volte, s'incendia di nitriti
tremuli, che si cercano nella lontananza
paurosa....
A fior di cielo, naviga una stella bianca.
La chiama un usignolo, in una sosta.
La stella cade! L'usignolo l'ingoia:
e tace sulla siepe, avvelenato.
Ma ad un tratto, un solo Uomo, vigile e dominatore
curvo sulla tastiera onnipotente
alimentata da mille dinamo,
muove cento leve che scintillano ai contatti.
Sfrigge, in una luce lunare,
l'impeto delle grandi lampade ad arco
sfolgorate improvvisamente sul terrore.
Sibilano le sirene senza fiato, dei motori
che s'incamminano alla corsa,
ansimando, con un battito stanco di volanti,
nei capannoni: abbandonati
dalle maestranze rosse.
Le macchine sospese nell'incerto silenzio
dell'abbandono, si destano;
i forni dallo stomaco ingordo,
s'arroventano; i magli martellano
i colpi cronometrici della loro gioia;
le incudini elettriche scalpitano
tamburellando la notte di ferite;
i laminatoi trafiggono invisibilmente
le corazze armate di bulloni infernali;
i torni consumano ogni forma,
col dente vorace che s'impagliuzza
di acciaio livido e brunito.
Tutta la vita meccanica s'è risvegliata
automaticamente, mentre l'esercito degli uomini
si distruggeva.
La terra avvampa in una nube fumigante,
piena d' orrori, di rumori, di sibili.
A tratti, dai gazometri, parte
un crepitar di bombe di gas illuminante.
In un fuoco d'artifizio
si sventaglia il prodigio nel cielo,
ed ecco il cielo riflettere in un miracolo nuovo
l'immenso crogiuolo della terra
scatenata.
Fra le due rivoluzioni capovolte,
sorge l'aurora boreale
e nel chiarore che si diffonde
un nuovo mondo allora, compare e sconfina.
senza meta, senza riva, e senza approdo.
Il siluro.
O delfino, saettante con le tue pinne elettriche
contro le risonanti corazze delle navi,
alla percossa tu fulmini in uno sciabordare di schiuma,
distruggi, attorcigli, in un vortice d'acqua che sembra
un'improvvisa gola spalancata nel vuoto.
Nella notte hai sorpreso il sonno dei marinari,
mentre la sentinella con gli occhi fioriti di stelle
si teneva alla coffa che mareggiava sul mare.
L'occhio liquido dei fari,
schizzato come una leva di compasso
non ti vide fuggire all'insidia notturna.
Si dondolavano le amache dei dormenti
nel languore più caldo di un bel sogno d'Agosto;
le palme tropicali, si chinavano su quel sonno
all'incanto di una bocca perlare: semi-aperta in un bacio:
e nelle orecchie assopite l'eco di una canzonetta
napoletana, forse, ripeteva il ritornello sentimentale.
Chi? Chi avrebbe, o delfino, atteso la morte cantando?
La nave era attraccata alle sue áncore gialle,
immobile in un silenzio più oscuro della notte.
In un barlume di cielo, la sua bandiera frustava
al vento. - All'erta! All'erta sentinella!
S'udì il fragore sordo del maglio cadere nel mare.
E sorsero le voci assonnate degli uomini: - Aiuto! -
La nave s'inclinò, girandola immensa, rotando.
Corse il sangue dai ponti, come alla svinatura
il vino sgorga a rigagnoli dalle crepe del tino.
- Aiuto! - I boccaporti si schiantarono, sotto la spinta
degli uomini pazzi, che videro la morte burlarli
.
- Aiuto! - Dal cassero, una fiamma si diffuse nel cielo
come un fungo rossigno, sfavillato nell'ombra:
una campana ondeggiò mortalmente, a rintocchi,
accompagnando un grido d'orrore che ventò nella notte:
- Si uccida piuttosto, chi non ha coraggio di morire!
L'orizzonte.
Orizzonte! Dischiudo le tue porte, immense
come i miei occhi, e penetro in te, dolcissimamente:
l'anima ho tutta nelle pupille, che t'imprigionano
senza lascivia: l'anima nebbiosa che si libera in te,
quando m'avventi le nubi sfioccate dei tuoi uragani
che navigano da tre mondi, da tre mari, da tre cieli!
Conduci dunque i tuoi corteggi di sogno!
Oscillan brevi città violette contro montagne d' azzurro,
poi, si dirada l'oasi celeste davanti al trono purpureo
d'un re tronfio con la pancia di vento.
E le case si muovono in un ondeggiamento di terremoto,
e gli alberi le incoronano di bavagli verdigni.
I mari insonni spalancano i porti navigati
di vele e di piroscafi notturni. E s'odono allora
divine musiche di rematori, in fiammeggiar, di tramonti,
e in balenar d'aurore, pianti di donne, dai lunghi veli
perduti!
Ecco, orizzonte, nel quadro delle tue porte
le creature, le cose, l'anima, i colori: la meraviglia
eterna dell'infinito che sbarra i mie [sic] occhi immortali!
Immortali: perchè vinceranno lo sconsolato tarlo del tempo,
e l'orrore delle mura vecchie, che filtrano curiosità,
e l'umido azzurro delle strade vellutate di muschi.
Perchè per te, vivranno oltre la vita, il noto e l'ignoto!
Passano nel raggio del loro desiderio veicoli fuggenti
più veloci e sicuri degli aeroplani;
le nuvolette dell'oppio che brucia nelle pipe dei fumatori
accendono la luce della loro penetrazione;
e il sole non li distrugge, nè il vento li fa lacrimare:
chè sono diventati lo specchio immobile della loro eternità.
Benedetti gli occhi degli uomini se vedono l'orizzonte,
quando si svegliano come levrieri celesti,
fiutando il dominio dei mondi
e l'imperial solitudine del vuoto!
Giungono nelle più meravigliose oasi del silenzio,
varcano i confini delle più strane città,
arborate di torri d'oro che hanno finestre di smeraldo;
vedono mostri dal volto d'uomini articolare
tra i denti una lor voce immensa di peccato,
se fra le braccia robuste muoiono le femmine loro d'amore..
Benedetti quegli occhi, se potranno ghermire in un lampo
la visione assiderata di tutte le fantasmagorie!
Ma le città del mistero, ad un tratto
ingoiano i mostri e le femine,
per rovinare in un meraviglioso cataclisma.
Ed ecco nell'orizzonte delinearsi di nuovo
un mondo, più vasto, col calmo abisso d'un mare.
S'erge favolosamente il castello d' una strega
nelle acque d'oro: pesci smerigliati come la luna
s'inseguono in un tremore di pinne agitate...
Occhi, miei occhi, ghermite l'orizzonte il nuovo orizzonte,
se no si cambierà il vacillante fantasma!
Esploderà nel vuoto una miniera rovente,
e una grande ala frullerà in un piccolo cielo di perla...
Ghermitelo! Perchè l'anima vostra sarà
l'orizzonte di tutti gli orizzonti! L'oceano più vasto
che si sconvolge in improvvisi uragani
ed accoglie sirene di tutti i desiderii!
l'impossibile e il divino! La meraviglia nel grottesco!
Il letto d'amore troppo stretto! Il fiore nato in un concime
morboso! La carogna di un cane inanellata di gioie!
Il martello che scortica la vecchia crosta del sole!
Voce, vista, moto, fremito, forza: e tutto meccanico o fisico,
chimico, elettrico: tutto quanto può immaginare
il cervello di un savio e la trepidazione di un pazzo.
Dal desiderio del fanciullo
che appena fuori del ventre materno,
si reca a scuola uccidendo per strada lo spettro dei libri,
alla dubitosa sapienza d'un vecchio, che non sa più
leggere la penombra oscura della filosofia;
dal piccolo furto pettegolo della serva infestaiolata,
ebbra, domenica sera, con l'amante che la sfrutta,
al vizio acerbo che invade nel letto del collegio
l'adolescente irrequieto; dal fascino giallo dell'avaro
radicato sul suo tesoro come un albero secco,
all'orgia del miliardario che nuota nella cupidigia
in cerca di una miseria liberatrice; dal sordo fragore
di una macchina in fuga lanciata come la pazzia,
a cui gli uomini ungono i volanti, o arroventano i forni,
o ritorcono le leve grasse, al fruscìo
d'una foglia che cade in una tristezza autunnale,
squallida, sospiro di nostalgia, grigiore d'anima in pena,
singhiozzo soffocato, velario di un'impossibile terra,
che si disperde nel fiato umido e caldo dello scirocco!
Dal mondo creato, quello che conosciamo per vivere
la nostra verminosa sazietà, all'ipotetico spazio
in cui almeno una volta abbiano corso a briglia sciolta,
nube su nube, ma più vittoriosi della nube!
Dall'orgia del visionario inacidito di fantasmi
che non parlano, all'oscurità estatica di un idiota:
tutto sarà l'orizzonte, il mare, la vita, il sogno,
la libertà che ci batte con una frusta sanguigna
quando la notte bianca tormenta la nostra carne
e le pupille si annegano nel cielo della paura!
Canto della via aperta.
Sterminata solitudine divina, che corrompo con l'ombra
del pensiero, se ti cavalco!
Via aperta; che conduci dove non so, ma che ignori
volgar calpestìo di ciabatte sfrangiate dalla tua pietra viva!
Tu che cominci dove
fra due siepi si è perduta la città che fuma,
ed a volte t'insegue col fischio
delle sue ciminiere violente,
che atterrisce stormi di passeri contadini
incamminati verso la grondaia di una cattedrale;
sii tutta fresca di perle come una regina,
se la rugiada ti assale;
sii torrente di fango se la pioggia ti frusta;
sii nube di polvere se il sole d'estate ti affòchi;
accoglimi finalmente
pel tappeto rotolante della tua lunghezza!
Procederemo; allora, uomini che desiderate la mia strada!
Ovunque sia la sosta della stanchezza, da qualunque porta
spalancata nell'ombra vi facciate ingoiare, comunque sia
il passo che ritma la vostra vita irrequieta!
Con la chitarra, cantando alla fatica che vi martella,
o barcollanti come ebri sotto la vanga che vi opprime,
o rotolati sulla complice forza dei treni,
o nella fuga meravigliosa delle automobili conquistatrici,
o sulle ale domate degli avvoltoi
che hanno cuori di macchina!
Io sono con voi, mi vedete? Udite il mio passo di gigante
calpestare prima di voi la terra? Ascoltatemi, dunque,
almeno una volta,
se con la voce bronchiosa dei miei polmoni
v'insegno il cammino sconosciuto della via libera!
Soldati stretti sotto lo zaino, impigriti nella marcia,
togliete gli otturatori dai vostri fucili,
abbandonate i plotoni che vegliano nei bivacchi!
Operai gozzoviglianti nella fatica e nel vino;
pallide donne ciangottanti, col ventre pieno di figli;
adolescenti intisichiti nelle vetrerie, che foggiate
le bolle di sapone della vostra morte;
tessitrici dalle braccia esili, zampe industri di ragno;
uomini sazî della vita, con la podagra del sentimento;
in fondo alla via aperta, troverete tutti un ideale!
C' è l'esercito che attende ai confini,
curvo su cannoni infernali,
se mai il nemico apparisca: il nemico di tutte le ore,
il Dubbio. C'è l'officina più satanica del suo fragore,
stretta nelle cinghie scivolanti dei motori
che figliano maestosamente, regolarmente, altre macchine
di metallo dai lunghi bracci articolati, che l'uomo
debbon sostituire nella sua fatica monotona.
Ci sono gli amatori più validi per le vostre calde
carcasse; e le fornaci più roventi
per i vostri polmoni assetati, ed i telai più frenetici
per i vostri lenzuoli funebri, tessuti di raggi di sole.
Ma più là! Ma più là, del nostro cammino molteplice
avanti a voi ed a me, che sono la perfezione del bene
e del male: perchè in fondo alla mia strada
che non finisce mai, io rotolo intorno alla terra
la periodica instancabilità della mia mortale stanchezza.
Ritroverete tutto, ma in una vita più triste
e più soave, che rinnoviamo dalle origini
per semplificarla, purchè si proceda
sempre più avanti, dietro a un condottiero poeta
che unisce le stelle alla terra e il divino all'umano.
Uomini avari e malfattori! Di donna che piace
abbiate affusolate mani che sfogliano fiori,
o adunchi artigli lanceolati dal coltello,
ed occhi d'ombra sinistri come la morte;
o saltelliate voi volubili guizzi di gazza,
o la fuga strisciante del ladro impaurito,
o l'untuosa stanchezza della beghina cieca,
o lo spavaldo disprezzo dell'eroe morituro,
preti e soldati, democratici e duchi,
imperatori e cortigiane, artieri e maestri, correte
dietro di me, senza basire!
E fasciate la terra col passo che sprofonda,
in una rinnovata velocità, in un nuovo ardimento:
la vita vostra s'è chiusa, la vita nostra incomincia!
Sputi a un dominatore.
Tu che avesti negli occhi le luci di tutti i cieli,
ala volante nella dominazione,
prepotenza nella pace,
rapacità nella guerra,
svolazza stanotte nell'ombra di tutte le tenebre,
starnazzando con l'ale nere rotte alla preda!
Sul tuo dominio io distendo un'altra temerità,
pianto le pietre miliari di un arbitrio divino,
segno il confino maestro,
traccio la mia proprietà.
E perchè la cenere non mi dia abbaglio
cancello anche il tuo ricordo
col canto che ti sventaglio!
Ultimo io sono! Ed ultimo rimarrò
nella memoria fino che giunga il navalestro
più giovine e valido al timone!
Drizzo intanto le rande
nel maestrale ch'è fresco d'alghe e di sale,
e navigo a mio piacere,
più veloce di ogni nocchiero.
Odor di mare libero mi ferisce le nari:
il mare, la terra son miei,
è mio il tutto, ed il nulla:
l'uno mi serve da guanciale
e l'altro mi serve di culla.
Se la testa sprofondo nel mio desiderio
strani fantasmi m'accompagnano:
ma il mio cuore è blindato
e non tremo.
Sempre solo rimango: nel mio lagno
e nel mio sorriso di scherno:
odio l'inferno, e mi scateno nell'inferno!
Cuor mio giovine, sempre
tu sei il mio cervello paziente:
amministri la tenerezza con saggezza futurista,
e distruggi il sentimento
che ti fa vecchio!
Hai gridato la morte
ai vivi, ai morti, ai nati morti.
Ora, col manto di carne che ha sembianza di maschio,
cavalchi l'infinito,
e se il mondo ti pare un baldacchino papale,
fulmini per le nubi
ad incontrare i tuoi pari:
che soggioghi coll' arma che ti fa despota immortale.
Cuore mio giovine, sai
odiare come nessuno! E t'adoro per questo:
perchè disprezzi gli aborti
e gli uomini!
Perchè, sebbene tu senta un chiaro di luna discendere
ogni notte sul tuo nuovo romanticismo,
sai uccidere il feticismo:
sentirti libero e solo nello spazio,
piangere col tuo strazio,
singhiozzare col tuo rimorso ribelle,
e la nube è il tuo singhiozzo che rovescia un pianto
sul mondo nelle raffiche autunnali
versate dallo staccio d' argento delle stelle!
Tempo di tamburo.
O voi che verrete dopo di me!
E avete l'agilità felina della giovinezza,
e il cielo chiaro nelle pupille infinite,
sventolate il mio cadavere come una bandiera!
Io vi ho insegnato l'estasi
divina del libero canto: quella che il dervis trova
nella vertigine della sua danza infernale.
E vi ho detto che il giallo frinire delle cicale
monotone nel meriggio incendiato di sole
non fa mai prevedere l'ultima sera del canto.
Ho schiaffeggiato le vostre anime molli e vili,
sì che la vostra razza si fonde con la vostra storia:
come l'uragano livido confonde i vostri lamenti.
Se siete invasati d'amore, v'ho detto di giacere
su letti di sabbia azzurra, coi piedi ignudi bagnati
da un gelido torrente scivolato dalla luna!
I pazzi urlino! E gli uomini che dicon di pensare
s'addormentino: accosciati gli uni sugli altri
per morire distrattamente.
accorgendosi d'essere vivi!
Questa forza satanica che dà
l'illusione torrida di un infinito dominio
vi accompagni, o voi che verrete dopo di me.
Allora al rullo potente dei funebri tamburi
rovesciate d'un colpo il mondo che trapassa
Con questa leva d'oro che ho forgiato per voi!
La corsa.
O grande anima mia che calpesti
l'umanità piccola e sconsolata,
che scrolli alberi d'oro su nidi di formiche
e fai cento leghe ad ogni passo,
e cammini verso i castelli misteriosi dell'Impossibile
giorno per giorno, ora per ora, senza tregua,
senza respiro, pure un tuo palpito intesi
farsi di sangue!
Pure i tuoi campanelli coi quali ti adorni
quando folleggi e ridi, o piangi ridendo,
squillarono come campane a distesa.
Tu dimenasti l'inutile gioia dei tuoi singhiozzi
come lo scherno di un giullare
ed apristi mondi d'inverosimile:
aranci maturi sotto ai denti.
Tu amasti correre in vertigini divine
vestita come l'arcobaleno,
a ciel sereno, per i tuoi dominî carnali!
E scintillasti, aurora! E scintillasti
fra due goccie di brina come un prisma,
e t'incendiasti come un sole,
come il sole che sbava la sua luce
sulla fanghiglia oscena della strada battuta.
O grande anima mia, così fiorita
di corone di gigli, e così vecchia
decrepita! Così serena e così vacillante
sotto le percosse del maglio impenetrabile!
Uccidi! Uccidi il tempo,
valica i mari e le foreste e il sogno
stesso che si cullò barbaramente
nei suoi ritmi di cantilena di zingari!
Si distendono i fiumi in argentei miraggi lontani,
e vibrano come corde metalliche!
I mari si addormentano nella bonaccia,
masticando vecchie carcasse di navi.
E le navi, nei mattini perlari,
procedono tremando con le grandi ale
perdute in un cielo di cobalto.
Uccidi! Uccidi la velocità anima mia
che ti gingillasti in inutili tregue!
Ed in un batter di ciglia soavi
tu che vedi tutto con occhio di lince,
tu che tutto assorbisci coi polmoni del vento
grida, grida, Anima prigioniera
che finalmente hai sorpassato il cammino della morte!
Fuga in aeroplano.
Voleremo insaziabilmente, quando il motore oleoso
avrà schiuso le labbra
sul suo lugubre e tremante borbottio di gatto in amore!
L'elica circolerà come una doppia mannaia rotativa,
noi falceremo le stelle come spighe!
Attenti, dunque, a raccoglierle nel cavo delle mani,
poichè per voi, uomini paurosi,
saliremo negli infiniti giardini pensili del cielo!
Ecco. E la terra già scivola sotto il nostro passo rotolante
mentre l'ala rimane ferma nell'infinito
e l'elica tentacolare brilla: subito in uno specchio rotondo.
Gli alberi s'inchinano, come se volessero spennellarci;
le case inghiottiscono nei cortili il proprio ventre calcinoso;
le ciminiere s'appuntano
coi parafulmini dalla punta invisibile,
e le terrazze bardate di vite s'allungano come dentiere,
se il fogliame ingoia i pianti dei tetti,
nella campagna gialla.
Chi ci raggiungerà prima del sole o della luna? Nessuno.
Il motore sghignazza negli arsi cilindri lunghi scrosci
di risa, monotone, isocrone, voluttuose.
L'armatura della macchina celeste,
vibra come uno scheletro
che si dimeni al vento di febbraio in una sera oscura,
appeso a un salice ubriaco.
Avanti! Avanti! Fulminiamo come un proiettile terribile
fino al sole! più in là! nell'orbita di mondi ignoti!
Ma quando saremo più liberi,
o signore che hai bocca d'uragano
dacci la forza di contemplare noi stessi,
con occhi semplici e buoni!
Oh, le nostre pupille d'allora, piangenti in un cielo
liquido di sole!
Sentiremo l'anima di nuovi mondi, cantarci nel petto
la fanfara della rivolta sul ritmo sordo e pensoso
del motore che beve ingordamente olio ed essenza!
Cirri nuvolosi di vertigine c'inseguiranno ai calcagni,
e un armento di nuvole spaventate
guizzerà sulla nostra estasi divina, ansimando nella corsa.
Ci serreranno ai fianchi, i tori infuriati,
aguzzando le corna impalpabili sotto l'ala,
ma il rombo scoppiettante del motore
le metterà in fuga: come se tirassimo delle sassate.
L'armento s'aprirà allora una strada
diritta di velli e di carne:
chè l'anima nostra libera dallo stuolo impazzito
più in alto vuol fulminare
curvando in un mareggiare indeciso
il suo sogno di bianchezza solenne!...
L'elica ha tagliato nella pastura ardente del cielo
il solco! Ascendiamo dunque impassibili!
Il vento ci bagna la testa,
ed i volanti rigidi, si tendono, sotto l'impulso
delle mani rapaci! In alto! Ancora più in alto!
Noi siamo le aquile rosse dagli artigli d'acciaio
roteanti nel cielo del nostro desiderio!
Guardiamo le cose coi due soli degli occhi abbacinati!
Possiamo lanciare le bombe della nostra cupidigia
sui vostri attendamenti di beduini infrolliti!
Portare l'annuncio che siamo uomini vivi!
Stabilire la via del cielo, primi tra i primi!
Aprire il traffico delle terre oziose
guardando le stelle impallidire nell'alba!
Scaraventare i sogni come manate di grano!
Sprofonderemo anche nel ventre d'un mondo improvviso
se il tunnel della sua ferita ci ingoî:
ma a mille chilometri della terra!
L'accoltellatore.
In qualche osteria suburbana,
dove si mesce vino nero
che sembra sangue rappreso
e odora forte,
con le braccia sul tavolo zoppo
e la bocca che fiata troppo
in un miscuglio di esalazioni
- vino, vermi e baci di puttanelle -
l'accoltellatore
si riposa al mattino.
Ha fatto un bagno di luce di stelle
che temperasse la sua stanchezza.
Tra poco russerà
pesantemente.
E sognerà di sbirri
che lo inseguono: fino
delle nubi sanguigne dentro ai cirri.
L'aureola pestilenziale
delle pipe di terra cotta
grava ancora nella camera bassa,
decorata di lunghe travi fumose.
Pochi avventori entrano,
poche voci s'odono:
voci corrose
d'alcool e di sifilide.
Poche volte, un bambino
mette uno strido, passando
nel vano della porta.
l'accoltellatore russa più forte
scaccia una mosca con la mano
e rovescia nel gesto
un boccale di vino
che lo macchia come di sangue umano.
Tutta la notte egli fu
a festa. Ha punzecchiato
da dilettante
le natiche di quattro figli di famiglia
che rincasavano assai tardi,
ed ha vuotato il portafoglio
all'ultimo avventore
di una sua piccola amante.
La notte era fresca assai:
e le stelle punteggiavano
di ferite d'argento
l'immensa taverna del firmamento.
Nell'ombra delle vie oscure
ansimava la rissa sorda:
la vittima oppressa di paure
alla minaccia di una lama ingorda
non si dibatteva nemmeno.
Sotto l'incubo del ciel sereno
fuggiva a briglia sciolta
e l'accoltellatore filosofava fra i denti:
- Sarà per un'altra volta!....
Triste guadagno della giornata
aver venduto le treccie nere
di due giovinette:
recise in mezzo alla folla!
Dieci lire per una parrucca!
C'è più di cordino e di colla!
Ma, per fortuna, lavorava
qualcuno per la sua sete:
Giovannina, dalle labbra di lampone
e dai lividi sulle braccia,
e dal bistro sulla faccia glabra:
una piccola iena
fuggita dal serraglio di Numa Hawa.
L'aveva scovata un giorno
in un viale nascosto:
in un frusciare di foglie
agitate: col suo profumo irritante
di pochi soldi.
Se l'era stretta fra le braccia
per morderla.
Le aveva tirato i capelli grassi,
l'aveva schiaffeggiata,
perchè gridasse,
ed ella aveva risposto
Con un sospiro: - Battimi!
Battimi! Ancora!
Mi piaci perchè sei forte
e sei crudele!
Questo profumo di sangue
che vapora da te
è acre!
Oh, benedetta la tua ferocia
che mi fa male e mi fa bene,
che mi riempie e mi svina le vene,
e la tua bocca che dilania,
e le tue unghie tigrate,
ed il tuo fiuto di belva!
Bruto, più bello dei bruti
liberi nella selva,
le piaceva: se col coltello
le striava la gota bianca
di una frangia di sangue,
o la faceva saltare con uno staffile:
lasciandole la traccia nera
sul dorso,
ed il segno profondo del morso
sulla nuca
incipriata di sudore e di polvere.
- Un giorno ti ucciderò!
- Fammi più male!
- Ti voglio tutta illividire
se non tiri su dalle calze cinque lire!
Cinque lire - capisci? -
sgualdrinella impestata!
- Vigliacco! M'hai assassinata!
- Tieni! Un calcio nella pancia!
- Miserabile! Che bella bocca!...
- Uno schiaffo!
- La mia guancia!
Ma purchè tu mi faccia morire!...
Ansimavano per un momento
guatandosi con un selvaggio
lampeggiamento:
lei della iena e lui del lupo.
Ed un fischio
li divideva a un tratto
col suo rischio sottile,
lanciato nel silenzio.
- A più tardi! Va via...
Se ti trovassero!?
Spariva come un serpente.
Ed era odor di primavera
dietro i suoi guizzi ribaldi:
fiuto di baci caldi,
di carne calda, nell'atmosfera
rovente.
Qualche volta, nell'alba
l'accoltellatore
vedeva la faccia scialba
di sua madre
comparire nel trivio:
vedeva la bocca sdentata
supplicarlo,
le sue labbra diverse
stirarsi a tratti,
bere le lacrime degli occhi sfatti,
lasciarle cadere per terra
come non sapesse che farne.
- E sei carne della mia carne!
E t'ho nutrito col mio latte!
Ebbro e ridente
l'uomo si soffermava
con l'insolito peso d' un macigno
su lo stomaco.
- Ah si, ho capito
che mi hai nutrito col tuo latte.
Ebbene quanto? Un bel tino
me n'hai potuto dare?
Non voglio debiti da pagare!
Riprendilo! E siamo a posto!
E spalancata la bocca
in faccia alla dolorosa zampillava un vomito di vino:
vino ridiventato mosto...
La vecchietta sbilenca
dondolandosi se ne tornava:
e negli occhi le luccicava
il fremito d'un mattino
lontano.
E le pupille
lucide, accarezzavano
la testa d'un bambino
- suo figlio? -
col nastro della cresima!
E le mani tergevano
dalla fronte, come in delirio,
l'insulto -
mani piccole,
con un tremito grande -
asciugando le rose rosse
dell'inutile martirio.