Versi liberi
di Enrico Cavacchioli
Milano, Edizioni Futuriste di "Poesia", 1914
Segnatura: Biblioteca Nazionale Braidense - 13.77.B.5
Tragedia di burattini.
Legato in un solo fascio, in abbandono, riposa
in un letto di polvere un mazzo di burattini:
soliti a recitare in un teatro infantile
la tragedia elementare della mia giovinezza.
Da molti anni sfioriscono senza le mie parole,
costretti nel groviglio di un filo di ferro tenace:
perchè son soffocati dal peso della età,
che li rende, in ragione dalla lor piccolezza,
quasi decrepiti d'una impossibile eternità.
Ma il Re con occhi vuoti vede ancora il suo regno
tutto fiorito. Il castello dipinto in uno scenario,
sorge fra colossali alberi dai rami fronzuti:
cantare d'usignoli si tace in quel silenzio.
e piangon le fontane,
la nostalgia perenne di quel regno fantastico.
Ad intervalli, a cavallo, le oscure comparse mute
delle sue scolte, passano saltellando come pinguini,
ma tra le quinte di carta finisce la regalità,
e i cortigiani cambiano le giubbe dagli alamari d'argento
in piccole livree di servitori borghesi.
O mio povero Re, piccolo re di marionette
che gridi in un interregno troppo lungo
tutta l'amarezza di una morte in solitudine!
Vuoi ancora errare nel parco,
che s'aduggia sotto l'autunno
in una nebbia grigiastra di pioggia: tra la boscaglia,
che stilla tesori di perle da un cielo tutto di perla?
Don Florindo ti secca con la sua vicinanza azzimata
e ti tormenta con desideriì d'avventura?
Rosaura piange singhiozzi di verginità:
si scandalizza forse delle proposte oscene
di un cicisbeo volgare incaramellato di lacrime?
Ricordi che serenate in un crepuscolo di sogno?!
Troppo ubriaco, Pantalone, faceva la guardia
sotto la finestra: in un manto di meraviglia
passavi tu, travestito da studente ridicolo.
C'era il profumo umido della terra fangosa
nella tarda ora lontana tutta velata di sogno,
ed in quel segno notturno l'anima si adagiava:
come la cometa nella chioma della sua luce fosforica...
Più burattini di cosi stretti in fascio dal filo di ferro
della vostra nostalgia di moribondi
non potreste essere,
se avete mescolato i singulti implacabili!
Ma forse sotto la coltre della polvere e del tempo
più dei morti che dormono nel cimitero dei vivi
avete risolto il problema della fratellanza universale!
Il pettine d'oro
Se ti disciogli i capelli, prendi il mio pettine d'oro,
ed accarezzali finchè tu voglia, e conta le stelle,
aspettando che l'alba illumini l'orizzonte.
Fantastica di mille cose mai pensate,
e viaggia nei regni dell'Impossibile,
su imaginarî navigli dalle vele viola,
che gonfiano al vento le turgide mammelle del mare.....
Troverai in qualche porto, un molo deserto
ghigliottinato dall'ombra,
nel quale non cercan rifugio le navi d'alcun paese.
Squallide donne, appariranno nel crepuscolo,
tirando a riva i rottami di qualche naufragio,
senza parlare. E la tenebra del rifugio impossibile
ti sembrerà pesante per la tua solitudine.
Non importa. Riprendi il cammino, se ti sembrerà
d'essere solo. Salpa per altri lidi reconditi,
ai quali giungerai di notte, attraverso la paura.
Trova altri porti martirizzati di fanali lividi,
ascolta sirene di piroscafi accarezzarti passando,
e richiami di uomini avvinazzati, intenti alla manovra,
e strani linguaggi di gialli, e risa di donne nere.
E salpa ancora. Senza riposo. Sul monoplano del desiderio,
sfreccia per porti aerei che congiungono le stelle errabonde:
vedrai terre senza approdo, e strani canali incrostati
di fantasmi, e creature che non sono uomini, e belve!
Spazia, finchè tu sappia. E sii signora del creato...
Poi, destandoti, quando l'alba si rotola nell'orizzonte,
getta pure il mio pettine d'oro che ha la magìa del futuro,
e tinge i capelli di una improvvisa verginità di canizie!
La carovana
So di una carovana.
Viaggia sui grandi cammelli, dal passo oceanico,
per un deserto incandescente, senza confini, amaro.
Uomini e donne incappucciati di veli
ingoiano per mille miglia il cammino battuto:
sembrano spettri di una processione fantastica
che l'inferno discacci dalle sue porte occidentali.
La muraglia del vento schiacciò le loro bocche,
le fasciò coi suoi gridi, le annodò alla stazione di partenza
con l'ultimo saluto. Ora, gli uomini trascinano la loro voce
come lo strascico frusciante di una bella veste regale.
E vanno. E pare l'anima triste più taciturna
e più gonfia di lacrime non piante
se il passo, che s'allontana, s'affonda in cadenza
nell'arida rena rovente
smerigliata da un sole liquido, torrenziale.
La nostalgia li precede a ritroso: odora di voluttà,
ha gli occhi stravolti, cerchiati da un raggio di luna
e le lunghe sue mani tamburellano ad ora ad ora
il cuore sensibile dei viaggiatori sonnolenti.
Il capo della tribù zingaresca
dondola invece la testa nuda, calva, gialla.
I servi lo seguono punzecchiando le some
coi coltelli, avvolti in turbanti di seta
da cui sporge una arcigna barba di beduino ozioso.
Le donne, sognano, coi grandi occhi perduti,
un amore lontano, che vorrebbe essere eterno,
ma danno all'eternità soltanto quello che amano!
Vanno. A sera, quando il crepuscolo
s'incammina coi loro passi violetti, nella notte soffocante,
sostano nel silenzio. Esausti. Discendono dalle ferme
cavalcature oceanine, bardate di rosso,
e s'addormentano riversi nell'ombra,
guardando il cielo che sembra vicino: così vicino
che quasi potrebbero toccarlo col naso.
Allora davanti alle pupille stanche,
cade il velario delle nubi:
che cosa - o Dio di tutte le religioni! - vive dunque più la?
Nessuno conosce il segreto di quella infinità
che taglia anche i pensieri: come una melarancia.
Non sognano nemmeno nella calura notturna,
mentre il bivacco fumiga nell'ultimo fuoco azzurro.
Riprenderanno all'alba, il viaggio inesorabile,
accompagnando il passo rinnovato: con una nenia infantile.
Tornano fanciulli scalzi e pallidi nel canto!
Piccoli paesi rivivono allora, assetati di gridi,
corsi da mandre di cavalli,
Con la piaga rossigna delle viuzze verminose:
in cui gli uomini perduti nel ricordo
si muovono in tardità solare: come fossero disossati.
Ma il sasso, sul quale il cammello vigile inciampi
improvvisamente, e li faccia vacillare
nello scatto più elastico dei ginocchi nervosi.
li riconduce subito alla realtà della strada;
Sembra un fiume di fuoco:
un livido fiume che corra, e porti nella corrente
un villaggio d'infermi, travolto.
Proseguono il viaggio. Lunghe vigilie
tremanti passano. Quando un giorno, la carovana si ferma
in mezzo al deserto, affamata.
Le donne piangono, implorano:
L'oasi verde! L'acqua di un pozzo! Samaritana!
Dove? Dove? Ma dove? Ingurgitano a sorsi larghi,
ingordamente. l'orina dei cammelli misericordiosi.
Poi, si raccolgono come un gregge che aspetti l'aurora
e cade la notte -ancora- tormentata di stelle e di paura,
al grido degli sciacalli osceni
che li incorona in un rosario polifonico.
- Oh, il ventaglio di un bel palmizio
che s'apra improvvisamente!
- Oh la nostalgia
di una casa: piccola come un guscio di chiocciola!
- Oh, una fontana
di pietra che sembri scolpita in una magnolia!
- Addormentarsi nella via lattea, come in un'amaca
traforata!
Le donne piangono. Implorano: in lacrime sommesse.
Scoprono le faccie larghe, dipinte.
E gli occhi risplendono, come
dai fori di una maschera impassibile.
I servi si accosciano l'uno sull'altro.
Il capo della tribù si straccia la tunica vermiglia,
e grida, finalmente, che bisogna morire!
Lo sapevamo! - rispondono le voci dei sudditi
in un sol grido lungo, nero, inumano:
l'accordo orchestrale di un popolo che agonizzi...
Ecco la carovana fantastica, risorta in ferocia:
- Come morremo? No! Non dobbiamo morire!
Si strascicano nella polvere e nella notte.
E ciechi d'orrore si cercano l'ultima volta.
Lunghi brividi hanno i cammelli distesi, assopiti.
Allora, il capo della tribù incendia le torcie a vento
che ardono in guizzi di sangue serpentini!
Le affonda nelle natiche gialle
delle bestie supine. E quelle nitriscono di dolore,
sobbalzando.
Turbinano come girandole. Si danno alla fuga
in una nube di scintille, rovesciandosi in terra.
Scalpitano in una danza saturnina.
Da lungi, la fiamma appare
e scompare: nella corsa impazzita.
- Porterete al paese più vicino l'annunzio della morte!
Ora gli uomini attendono, immobili, estatici, muti.
quando una voce grida nel silenzio oscuro:
- Odiate l'eunuco che predica la castità!
Il capo della carovana, appare ignudo e potente
brancolando fra le coscie della femmina più bella.
Tutte le bocche s'arroventano: - Morremo d'amore! -
S'indugiano i petti, ansimando
in acri piaceri monotoni e lunghi,
corrotti di baci troppo viscidi e molli.
Poi, saziate, si distaccano le bocche, piene di bava
con una nausea oleosa e pesante;
i corpi ignudi si rovesciano sulla sabbia, sfiniti.
È sopraggiunta la morte?
L'afa ristagna come in un mare pestilenziale.
Iddio, l'uomo, il bruto, sono un essere solo pieno di torpore.
Un cuore unico batte, ad intervalli.
Resupino, il maschio
sembra un paralitico schiantato sulle sue gambe.
L'animale politico cessa d'essere politico:
non è più che l'animale!
L'oratore ha sgonfiato la sua gola di raganella!
La meretrice spalanca l'umido anello della sua vulva!
- Bei cadaveri siete, uomini vivi,
ma la morte vi cambierà in burattini!
Io vi comporrò nella bara! Atteggerò le vostre maschere
in una smorfia deliziosa,
che il gelo dell'al di là deve impietrire, come voglio!
Oh impossibile delirio della carovana fulminata!
l'angoscia dei morituri. C'è l'odore del mare
in quel divino palpito, che arriva
caracollando sulla sabbia annembata.
Gli uomini balzano allora dal giaciglio mortale.
Si stracciano i panni miserabili che li ricoprono ancora,
corrono, senza riposo, sulla traccia dei cammelli scomparsi
come ad un solo segnale: hanno ritrovato la vita.
Ed ecco il mare, si spalanca d'un colpo
all'estremità del deserto oltrepassato:
c'è una piccola vela bianca che si gingilla nell'azzurro,
e sembra il petalo di un fiore balzato fuori dell'acqua
da un roseto abissale!
Un grido solo, sorge dalle bocche avvizzite.
La carovana si ferma sulla spiaggia,
s'inginocchia sulla sua vecchiezza decrepita
e dice, ora che superò il deserto lontano:
- Come faremo a traversare il mare?
La nostalgia la precede a ritroso: odora di voluttà,
ha gli occhi più stravolti, cerchiati da un raggio di luna,
ma la sua testa arruffata dondola come una campana.
Sospira, come una femmina: ritroverete il deserto
o creature del mio tormento! o fiori della mia giovinezza!
Perchè volete seguirmi se i vostri piedi vacillano?
Perchè volete ignorare quale eccesso di confidenza
sia la propria sciocchezza?...
So di una carovana.
I Re
Quando la notte si chiuse nell'ampio mantello dell'ombra
come il ladrone che teme l'incontro della luna,
e le case bendate di sonno sostarono mute
e non ebbero il cuore, più, di fissarsi, nemmeno
con gli occhi illuminati delle finestre lontane,
cavalcata di Re comparve fra gli alberi ignudi
scalpitando. Ed il mare valicò la sua corsa mugghiante
lungo la strada snodata, nostalgicamente snodata
nel desiderio di luce di un chiaro mattino solare.
Avevano cavalcato, i Re, gli stalloni più nobili
già domati a ritroso da discipline di corte
e su gualdrappe argentee ruscellate di gemme
deposto il rosso broccato fiorito di porpore antiche,
procedevano in fila coi loro scettri d'oro.
- La Vergine che cercate riposa in un prato vermiglio:
uno scorpione d'oro le fa da guardia venefica.
Quando la campanella di tutti i paesi che fumano
nell'Ave Maria turchiniccia coi lor campanili diritti,
ciabattano
come una torma di vecchie beghine che preghino
per passeggiare il cielo a lenti passi di bronzo,
la Vergine si chiude nelle sue treccie oscure
ed una stella cade sulla sua notte terrena....
Il desiderio racconta la favola bella ai Re.
E i Re, fatti d'ombra, cavalcano notte su notte in silenzio
per le foreste raccolte che tagliano a fette la luna
nell'intrico dei rami immobili rigidi e neri.
Ma quando l'alba raggiunge la comitiva spettrale
e soffoca nella luce lo sferragliar dei cavalli
sembra che il sole
abbarbagli la porpora, gli ori, gli argenti,
e i Re della notte spariscono nell'ultima voce discreta
che guida la fuga infernale fino alla morte, più là.
- Poi che la stella ha vegliato il livido sonno lunare
e lo scorpione d'oro chiama a raccolta pel prato
i grilli, gli gnomi e le fate, si desta la vergine. Allora.
E chi le porge nel calice d'un grande mughetto, un gelato
di brina color di rosa. E chi le regala un biscotto
di farina di gelsomino. - È amaro? - Ma tanto profuma
Se tu volessi morderlo!? - Del latte di magnolia?!
La Vergine ringrazia. E poi, siccome il più saggio
gnomo le ha detto che dopo è necessario del moto,
eccola sull'aeroplano d'un'aquila nera, a vagare
a grandi colpi d'ala pel cielo più azzurro del mare!
Quando discende in un volo plané nel suo prato vermiglio,
i dignitari più in vista della repubblica verde
corrono a salutarla, La talpa che viene da lunge
sbuca dalla sua tana con gli occhi cisposi di terra
e fa un inchino grottesco con federal riverenza.
Le mogli dei dignitari, di già vestite da sera,
- ce n'è una che porta culotte di foglie di fico -
si profondono in inchini e non osano di parlare.
Sembran quasi signore di ottima società:
le femmine già sono eguali, di qualunque sia specie....
Il desiderio, racconta la favola bella ai Re,
quando la notte si attarda nel nuovo mantello dell'ombra
e la comitiva fantastica appare sui dieci stalloni.
Il viandante che giace pallido di stanchezza
al paracarro fangoso della via solitaria
spalanca gli occhi, e crede che passino tante streghe.
Vede l'ombra fuggire sull'erba grassa e riposante
su cui strascica ancora la barba d'argento dei vecchi,
e s'addormenta al ritmo lontano della cavalcata
che sembra la marcia funebre di cento tamburi velati.
Ma finalmente il prato spalanca il suo rosso tappeto,
tutto di fiori e di steli, con la sua stella: accesa
come un lumino da notte per il sonno di un ammalato.
- Dove dorme la Vergine?
- Oh! siamo giunti! - Chi scende
da cavallo per primo? - E chi mi tiene la briglia? -
- Olà! C'è uno scorpione enorme che guarda con occhi
terribili! - Ma più in là, riposa la creatura
del sogno! - Eccola! - Guarda! - La giovinezza nostra
che s'era perduta! - È una! - È una sola! - È la mia!
- Tutta chiusa siccome la mandorla nel suo mallo!
- La riconosco! Ti inganni! - E via dunque, che cosa
domandi? - Non t'è bastato l'oro di tutti i tuoi sudditi?
La forca rossa, che appese i tuoi nemici, non ha
suonata l'ora tua estrema; come un pendolo meraviglioso?
- Vattene. È tardi! -
Un contro l'altro i Re si fermano. Con le spade
che sembrano provocare il lampo della luna,
ringhiando come cani da presa, con gli occhi rossi
annegati nell'ombra della loro forma terrena.
- Eh via, monarchi buffoni che strascicate la barba
quasi di sotto ai piedi delle cavalcature
e vi parate dietro agli scudi incastonati di false monete!
I vostri denti, nel bere, caddero in fondo a un bicchiere,
le vostre mani non seppero più reggere lo scettro divino!
E la vecchiezza vostra puzza d'orina e di bava!
Che cosa c'importa di questa ridicola tenzone
ingaggiata alle porte spettrali della Noia?
Volete forse rompere i cardini arrugginiti
che si spalanchino ancora sul vostro cuor senza sole?
Ma lo scorpione d'oro s'è rannicchiato nel suo
veleno. E attende, immobile, se mai qualcuno s'avanzi
a ghermire la Vergine che tutti hanno creduto
la loro giovinezza.
S'è destata: ai rumori dei ferri e della contesa,
e domanda spaurita che cosa vogliano i Re....
Dove sono gli gnomi? Le fate son forse fuggite?
Possibile? - Mi uccideranno?
E piange se quelle la invocano,
e più si chiude nei suoi capelli perchè sente
che è troppo ignuda. Ed ha freddo: la prima volta. È sola.
Ah! se la talpa venisse a prenderla
e la conducesse in salvo per le sue catacombe!
Ah, se qualcuno della repubblichetta sua verde
la facesse fuggire sotto l'ombrello di un fungo!
Sente ch'è giunta un'ora quasi definitiva,
chè da un momento all'altro può morire come la luna.
E allora si riposa del suo dolore, come d'una fatica.
Sotto i colpi mortali le ombre dei Re son rimorte.
Per cinque notti cozzarono come tori infuriati,
e solo una, la mia, che sono il Re dei Poeti,
può contemplare finalmente l'infanzia perversa e corrotta
di questa vergine ignuda che si chiama la Giovinezza!
Ecco: ho ucciso quel gelido scorpione che la vegliava
ed ho schiacciato la sua bocca corrosa di veleno.
- Ti porterò con me! sola con me! finalmente!
quando tu vorrai piangere e tu vorrai soffrire!
Ci fermeremo a tutte le osterie della strada
come plebei pitocchi, dove sia frasca verde!
Calpesteremo insieme la mia corona di gloria,
perchè, tanto, il mio regno non ha bisogno d'un Re
e noi due non abbiamo bisogno d'un reame!...
Ma quando ebbi distese le mie mani febbrili
per prendere la mia giovinezza, così
bella.... Ma quando ebbi calpestato i cadaveri
degli altri Re, riversi nel doppio sangue vermiglio
di loro vene sgonfiate, e dei fiori rossi del prato,
e già credevo che viva la mia giovinezza
volesse saltarmi al collo con un guizzo di tigre,
ahimè la Vergine ignuda era morta di paura!
La porta del lupanare
Malinconiche nostalgie di serenate, che salgono
i viottoli della città come il profumo del caprifoglio:
a fiotti scampanella il richiamo fresco dei gelsomini
che zampillano da una inferriata spinosa,
e l'ululato di un cane vagabondo accompagna la chitarra.
Conosco le creature che vorrebbero morire
in una sosta del canto, quando si cercano gli accordi.
Dalle finestre aperte,
ascoltano palpitare la propria insonnia
come se avessero il cuore vivo nel palmo della mano,
e quando il canto lontano
oscilla come il nido sul ramo frustato dal vento,
si che la voce sembra cambiarsi in un singhiozzo,
s'abbatton con la bocca sul guancial troppo bianco!
Che cosa vorrebbero dire le labbra troppo rosse
in quel profumo di tisi che sale dai giardini assonnati,
tra il chiocco1io delle vasche esauste e moribonde?
La chitarrata naviga il cielo come un oceano.
e s'inghirlanda delle ultime stelle d'Agosto.
Che cosa vorrebbero udire da quelle bocche nascoste
che valican le nubi cantando nella luna
e si posano a tratti come tortore stanche,
le creature smarrite nel desiderio della morte?
Anche la chitarrata muore, lontana e nostalgica
come esalando un suo respiro pudico,
fra case bianche ed orti interminabili.
E mentre voi, creature che vorreste morire
nel singulto mordente degli accordi strappati,
vi abbandonate a un triste singhiozzar taciturno,
i suonatori sghignazzano, nascosti nella porta
del lupanare: che veglia nel vicolo notturno.
"L' uistiti"
Un rosso piumino vivo, sembrava. Dal quale, si snodassero,
a volte, due piccole braccia e due piccole gambe di aborto,
e la testa pettinata, con gli occhi a punta, rotondi di civetta.
Abituato alla selva, a battersi con lance di liana,
a dondolarsi nel guscio di una noce di cocco
quando la calura notturna portava un profumo
di stelle e la musica delle piante singhiozzava sulla terra,
aveva ancora nello sguardo attonito, la stupida divinità
del sogno.
Oh, le battaglie a colpi di frutti!
E le fughe di ramo in ramo,
nei pomeriggi, sordi dal gridare dei rospi!
Tribù popolose di uistiti si inseguivano
nei palazzi degli alberi,
squittendo come una torma di passerotti in amore,
e la lunga catena si spezzava a nn [sic] tratto:
divisa dal fiume che interrompeva la corsa
col fuoco abbagliante della corrente riarsa!
Il capo della ciurmaglia, sospeso pel braccio ad un ramo,
si dondolava, prima di lanciarsi contro il disco solare.
L'acqua, senza tregua, rispecchiava il suo sforzo rosso.
Al piccolo grido, del richiamo selvaggio, di nuovo, la tribù
ripercorreva le vie solitarie delle piante conosciute,
e ad ogni balzo, ritrovava la traccia recente,
e ad ogni ramo si cullava di nuovo, perchè i fiori
la ricoprissero della loro meraviglia vegetale.
Sbucavano come un gregge: dopo essersi nascosti
con una gioia infantile dietro una foglia bruciata,
che confondeva il suo ardore col loro vivo pelouche.
E la notte li sorprendeva nella gazzarra abbagliante,
a spiare i grandi combattimenti delle belve
che ruggivano nel silenzio una tempesta di gridi.
Chi avrebbe potuto dimenticare le serenate,
sospirate, sgranando la scorza verde di un frutto?
S'affacciava la bella a una finestra di frasche,
gettando al cicisbeo una manciata di mandorle amare:
i papagalli [sic] piangevano con lunghi stridi lontani,
il cielo era uno specchio immenso che si poteva vedere
trapunto di fuochi d'argento e di voli infiniti........
Fra le stecche avide e gialle della sua gabbia,
lontano dalla foresta, nebbiosa di verdi alberi giganti,
prigioniero di qualche civiltà profumata,
l'uistiti, si sentì un giorno morire di nostalgia.
Dopo avere appreso agli uomini curiosi
che sapeva mangiare come loro adoperando le mani,
dopo avere atteso la liberazione e la gioia,
diventò malinconico pensando al suo regno perduto,
ed i suoi piccoli gridi, furono come il cinguettare melodioso
dell'usignuolo cieco che cantasse all'autunno lontano.
Vide, a volte, passare in una allucinazione
la sua tribù, galoppante sugli alberi del sole,
e si trovò attaccato alle stecche del carcere,
sotto gli occhi crudeli di una bella donna perversa.
Sentì, più tardi, la musica lontana dei crepuscoli
trapassargli le orecchie con le sordine di seta del vuoto,
in un capogiro improvviso, e cantò la sua disperazione
grattando la piccola testa dai peli rossigni arruffati.
Vegetò nella gabbia. Mangiò semi di canapa e aranci.
Impigrì sospirando in una siesta prolungata.
Ed una sera si uccise, senza gemiti di protesta,
stracciandosi la pancia con le unghie piccole e dure:
come un santone giapponese, di quelli che si rispettano...
La donna dai moncherini.
I suoi meravigliosi capelli, neri, lucidi d'olio di cocco,
erano stati il nostro lenzuolo,
I suoi occhi,
dolcissime mandorle, morivano allora senza luce,
la gola docile sgranava perle lunari di spasimo.
e tutto il corpo in una vibrazione sola
sembrava un'architettura di metallo, che propagasse,
d'arco in arco e di cupola in cupola
l'orribile brivido del mio desiderio carnale.
Io non avevo conosciuto questa donna che in sogno,
udendo la sua voce cantare a distesa per le mie vertebre:
« Prendimi, amore, in questa vita artificiosa e doppia
che ha l'aroma africano d'un diverso mondo,
se il tuo sogno pesante, mi affascina, m'arde, m'alloppia
come l'eco del canto sospirato da un moribondo...
Conosco il cielo infinito, ed il mare verde nel quale tu scivoli
quando risplendi, multicolore, in un arcobaleno,
e il tuo sopore, è l'effluvio aereo di un veleno
che accarezza anche il mio sogno fuggitivo...
T' ho veduto fiorire in ogni ombra, come uno strano volto
imbellettato dalla cipria di luci diverse e fantastiche;
ogni amore infernale, ogni corpo vivo che amasti
l'ho in un cuore di donna, con un'ancora grigia raccolto!... »
Io non avevo conosciuto questa donna che in sogno,
vedendo la sua chioma fluttuare come un velo di vedova,
sentendone la carezza lussuriosa sui miei occhi aperti!
« Prendimi tutta! Sono un frutto chiuso! Trova nella mia
anima il cielo di gioia scatenata che cercavi.
Sono il mare senza confine dove navigan le navi
con vele gonfie, nella bruma imprecisa che le spia...
Non senti la mia carne ardere più del sole, se ti aspetta?
Sringimi forte! Sempre più forte! Uccidimi sul tuo cuore.
È la mia bocca che ti bacia come una maretta....
La mia carne è a volte un languido tramonto autunnale
d'amore
che attende in chiarità diafana sorga la luna:
sentimi tutta ignuda, rovente! Sentimi con una
sola carezza: dalla testa ai piedi, lungo la spina dorsale!... »
Io non avevo goduto questa donna che in sogno,
appassionatamente. Ed appassionatamente l'avevo pregata
di chiudermi gli occhi con le sue dita lunghe e fatate,
che credevo adorne di molti anelli dalle pietre viziose.
Il suo corpo, manteneva ogni promessa,
magnifico e solenne.
Ma le sue mani, le mani che si ostinava a nascondere
dietro alla nuca, offrendosi sempre più, sempre più!....
Le bellissime mani che non mi accarezzavano mai,
ed avevo pensato odorose di spigo e verbena!....
Me le mostrò, finalmente, in un attimo di abbandono,
e vidi
due moncherini sanguigni agitarsi nella loro cancrena....