Cavalcando il Sole

Versi liberi
di Enrico Cavacchioli
Milano, Edizioni Futuriste di "Poesia", 1914

Segnatura: Biblioteca Nazionale Braidense - 13.77.B.5



Minuetti a passo di carica

Maggiolata per adolescenti.

La luna fuma tranquille
pipate di nuvole, e incorpora
nella fumata amara
i suoi fantasmi più strani:
ondeggiano a gara
come un gregge disperso
al fluido richiamo dei campani,
in una sera chiusa
tra due cieli di porpora,
le creature della sua maggiolata.

E s'ode la classica squilla
d'un'Ave Maria sonnolenta
che muore scorticata
nel campanile turchino:
ogni nota sembra di smalto,
rimane per un attimo
nel cielo di cobalto
e s'accompagna alla sega
randagia d'uno stonato violino
che prega,
e le gatte in amore
che vagan su i tetti spaventa.

Con la grazia scettica ed infantile
di una piccola scimmia percossa,
mi graffi allora
sul cuore duro le traccie della noia,
e il silenzio invisibile
la mia triste anima
ingoia:
come la ghighiottina [sic]
dalla lunetta rossa.

C'è in aria il Maggio, tenero
di canzoni e di gridi,
con l'arida voluttà
di distruggere
i nidi
e le foreste:
c'è il Maggio che investe
gli orti e la provinciale
innamorata:
ogni susurro di fontana
sembra il bacio d'un' orizzontale
ammalata.
Noi sentiamo nel sangue
germogliare la rivolta:
e le lucciole corrono,
aeroplani della notte
e portano le querele luminose
delle farfalle alle rose.

Io taccio perchè non so
cantare. Eppur tu vuoi
che ti dica o mia allodola
una canzone. Quale?
Del prigioniero che grida
nella sua cella nera
i suoi singulti più ardenti
quando la primavera
divampa e tutto l'imbrodola
del suo sperma rovente?

Lupo di tenerezza
sembra ingabbiato d'amore
e sogna:
di fanciulle leggerissime fughe
in un paese lontano,
ed un urlo che non saprà
mai: un urlo che bisogna
ignorare!
Ma giù, nell'orto oscuro
sotto la grata, fioriscono tante lattughe
per calmare dei nervi
irrigiditi l'ardore!

Non pensa ad una bella
- a te Anna Maria?
a te Verbena?
a te Colombarella? -
con l'anima
grave più d'un tamburo
velato di misereri,
e dure pietre vive
non sente scolpirsi
nei neri
occhi, che il vento rianima
come una vernice?

No. Piange tre preghiere
nella maggiolata stanca
di canzoni e di gridi,
per l'ignobile sogno
schiaffeggiato d'amore,
che con la voce roca
gli porta quasi il terrore
della sua voce antica e importuna
parlata di Maggio
un giorno, dentro la cuna...



Canzone delle vele strappate.

Ho sentito singhiozzare
qualche volta
la canzone delle vele strappate,
in un crepuscolo soffocante,
quando il mare
bolle nella sua rabbia
azzurra e grigia.
Il mozzo grida alla tempesta
che l'avvicina
dalla gabbia
di maestra.
E fra le nubi,
in un alone errante
occhieggia minacciosa
una falce di luna calante.

Tutto è sigillato
in un silenzio lungo
e caldo.
La riva bassa
s'annebbia
di polvere, e si deforma
nel velo inconsistente
della raffica
che la fa lontana.
Il porto s'ammatassa
nei mulinelli del vento,
rimane chiuso,
confuso,
in un solo indefinito ondeggiamento.

Ogni voce è più sola,
arida, convulsa.
Le darsene
che l'occhio allungato dei fari
con una frecciata rossa
squarcia
putrono d'alga marcia:
si frastagliano di spuma.
E le barche s'avventano
cigolando:
rompono le catene.
mentre dall'arsenale
le ombre dei marinari
accorrono sulla banchina fradicia di sale
e guardano il mare indemoniato,
di sotto il cappello d'incerato...

Qualche nave che viaggia
sull'orizzonte
s'impennacchia di fumo:
quasi volesse adagiarsi
nell'ovatta plumbea
delle sue ciminiere.
Dalla terra al mare
si propaga un brivido di attesa,
il vento frusta con le sue bandiere
disciolte nelle nubi,
ed il silenzio dell'immensità
pesa.

Tacciono i timonieri,
e la manovra s'avventa
in un rumore d'ordini e di fischi.
- Attenti all'argano!
- A prua!
-            La scotta!
-                         Molla!

I paranchi immobili
ristanno. E annotta
sui boccaporti
neri di catrame.
Qualche fantasma sorge
sotto il timone a ingarbugliare l'elica.
la nave, ecco, s'impenna
trema lo scafo, gli alberi tentennano;
- Attenti! Attenti all'argano!
Preghiere tristi
per il cielo notturno
sorgono e s'allargano.

Le vele si disciolgono
sulle antenne,
perdute in solitudine
nell'altezza ferrigna.
Balzano tutte sotto il calcio dello scirocco
come cani da presa.
Abbandonate nella luce livida e fosca
dai rigidi pennoni del piroscafo
intonano la loro mazurka,
e chi l'ode ha paura.
Nella scia della chiglia
s'apre la fossa profonda della sepoltura.

Io la sento singhiozzare
la canzone delle vele strappate
che s'agita dalle gole
di questi stracci pendenti
come corpi d'appiccati.
A distesa, sfarfallano
nell'intrico dei cordami;
a distesa, a volta a volta,
le lor danze starantellano,
confondendosi in richiami.

- Vento! Oh vento che giungi
cavalcando i cieli e il mare,
soffia da riva a riva!
Soffia più forte!
Avvolgici sempre più
nel giro delle tue braccia
che la stanchezza cattiva
della tua bonaccia
ci sfianca, a volte,
come fa la morte!

- Vento! Oh, vento! E tu frustaci
in un'aureola vermiglia
quando vieni e sei l'araldo
di tempesta da nord-ovest!
Ti frustiamo e tu ci sembri
ben pasciuto di cadaveri!
Siamo liete di soffrire
le punture della pioggia
che s'abbatte sui cordami
grave e triste, triste e grave!

Ed ecco: chiusi nel guscio
oscuro della coffa
i mozzi sono scomparsi
effusi in una nube
nera.
Ora ne indossano i cirri
come giube,
quando nel porto vestono
di stoffa,
ed azzimati a festa
non mostrano nemmeno la testa.

Chi più di te scompiglia
i loro sogni?
Stridono le carrucole
che l'uragano svelle
dalle grù,
noi stracciate corriamo
per il cassero
su è [sic] giù,
e se le scotte tese
si schiantassero,
vaganti rondinelle
partiremmo pel sud
per non tornare più...

Tutto, fuor dalla canzone triste,
è sigillato nel silenzio:
solo un fulmine si stira
nelle coltri delle nuvole commiste.
La riva bassa scompare,
e il lampo livido e lungo
indica il mare, il mare, il mare....



Il ragno aviatore.

Fili d'acciaio impercettibili
giunti dal sole alla punta della mia penna:
sfavillanti bisturi del sogno
ondeggiano qualche volta nei binarî paralleli
ch'io tendo.
Un ragno magico, orrendo,
vi scorre in volo planato, allargando le zampe
contro vento.
Il corpiciattolo striscia, s'altalena, vibra,
ed in un equilibrio fulmineo
scivola improvvisamente fino a me.

Io non conosco migliore aeronauta!
Fa suo dominio il cielo cercando una preda
vertiginosamente;
odia la terra, disprezza la montagna
che mura l'orizzonte con la fascia funebre della sua mole.
Dritto al volante, guida senza esitazioni;
taglia lo spazio, in chilometri di ingordigia,
pettinando il pelume del ventre al maestrale:
nè si cura d'ostacoli
che scavalca senza paura e senza ale.

Tutto, in torno, divampa
la cantilena platonica delle cose create
di cui è infinitesima parte.
E pure, egli si sente il più grande dominatore,
che su monoplano rovesciabile ed illusorio
può correre gli estremi limiti dell'infinito!
Dalla terra, al pianeta Marte:
e comparire nel telescopio di qualche puzzolente
astronomo d'osservatorio.

Ha in se il brivido d'ogni foresta
placida, nel mare cadaverico della luna:
non un bisbiglio s'ode, non il frullo d'un'ala
assonnata che combatte in un nido.
Ombre, a gamba di cavallo
s'inseguono. Passano fantasmagorie
dinoccolate, con paramenti di tenebra
e dorature di fiamma, tenute a freno
da guinzagli verdi di liana.
E le gole dei monti, scampanano ad un tratto -
si che l'eco ritorna, gigantesca,
per ogni grotta e per ogni sufratto -
- di - un lungo lamento color cocciniglia.

Ode il mare che canta ritornelli di libeccio
nel sartiame convulso. Banchi d'alga e di sabbia
s'incontrano nel riflusso della corrente perversa;
e piroscafi, in fiuto, protesi verso il sud-est
corrono, impennacchiati di fumo nelle ciminiere,
simili a carri funebri di prima classe.
Or si, or no, qualche gabbiano getta la pigra
lapide del suo corpo sul mobile cimitero dell'acqua.
Trae la carcassa viva d'un pesce
col becco da affossatore. E trasmigra.

L'eroe, l'uomo, soltanto, sul limitare dei cieli
egli vede esaltarsi nell'audacia d'ogni gesto.
Nell'aureola d'ogni sole, ogni giorno egli appare
santificato e protetto.
Nell'ombra d'ogni notte, insonne, con occhi di rubino,
s'agita, preda della sua preda meravigliosa.
Qualche volta lo troverà, giunto allo zenith,
con la testa sprofondata nella radiazione d'un astro!



Fantasmi di vecchie costruzioni.

Una città lunare: un festino
cadaverico di costruzioni,
senza lanterne,
con qualche breccia nel travertino
simile alla chirurgia d'un vulcano
che abbia esploso:
aprendo un ventre di fuoco.
Ombre lunghe, con occhi
lividi di luna negli angoli,
archetti barocchi,
edera parassita,
davanzali smangiati, triangoli
di muffa.
Ad ogni alito di vento che rabbuffa,
un odor lieve di cose morte
esala dalle porte socchiuse.

Tra colonne di smeraldo
occhieggiano guglie confuse,
e nell'ombra azzurrastra,
a tratti, a tratti fiammeggiano
i vetri d'oro
d'una casa patrizia.
Scende l'ombra e sovrasta.
Ma sui vetri è rimasta
l'impronta di cinque dita livide:
uno stemma di famiglia
pauroso.

Tre beghine regnano in questo asilo
primitivo.
Portano il ritmo vivo
della loro carcassa
nei cortili
lunghi.
Somigliano a certi funghi
cresciuti nell'umidore
di vecchi tronchi marciti,
e vestono lunghi vestiti
di raso verde,
ed hanno i capelli verdi
come l'erba dei prati:
una stranissima erba
cresciuta dopo
sui loro cranî spelacchiati.

A notte, quando il chiaro
di luna si distende
coi suoi fantasmi
tra pinnacoli e guglie,
scendono le larghe scale
per cui si sale alle loro alcove,
e ovunque trovino la luna
la trafiggono con un pugnale,
su le mura:
credendo di farle male
Come ad una creatura.
Poi la medicano con ragnatele
perchè sono pentite,
e s'illudono di celebrar l'omicidio
con un fantastico rito crudele.

Nessuno passa per le vie
lunatie,
incanalate a sghimbescio
sotto l'arco dei ponti.
E la solitudine è lieve
nei cortili,
dove a fili
ciangottano le fontane,
un piccolo getto di saliva fresca
dalle gole di pietra.
In qualche angolo, la morte
ha disteso un sudario
per addormentarsi.
E non ha potuto.
Andandosene ha lasciato
il suo profumo cinerario
sul velluto molle delle muffe.
Ed ora una volta al mese,
ripassa, come una regola,
a trovare le tre beghine buffe.

Ma le vecchie, giunte che sono
all'estrema porta della città,
quando l'ombra verde
del loro vestito verde
dilaga per la via maestra
si fermano, piene di curiosità.
l'eco delle loro scarpette
dai tacchi ferrati
scampanella e le atterisce.
S'inchinano e sminuettano.
Hanno il cuore negli occhi
e battono le ciglia
smarrite.
Danzano macabramente,
invocano i serpenti rossi
che avvelenino la luna, finalmente!

Ed ancora una volta
la trafiggono sulle mura
col pugnaletto di fuoco,
e nell'inutile lunicidio si trastullano:
mentre la ferita si culla
nel suo spasimo, voluttuosamente
e vuota a fasci
la sua luce violetta:
un torrente innocuo di sangue
che non finisce mai,
e macchia le mani delle beghine
inorridite
dal delitto, in cui si accaniscono
ogni notte, da tanti secoli, per l'eternità.
Che silenzio!
Che notti!
Che città!

Se un usignolo, a un tratto,
ecco cantasse:
se la sua gola sgranasse
perle di stelle profumate di tenebra
interrompendo il silenzio
mortale
con un piccolo battito cronometrico d'ale,
le tre beghine morrebbero.
Da tanti secoli non parlano più,
e le parole si sono irrigidite
nelle loro gole di vetro
come tanti spettri:
come tanti diavoletti
di Cartesio:
vanno su e giù
e non escono mai.
Soltanto, in certi momenti,
hanno un gemito strano:
auvlah!

Morrebbero dicendo: auvlah!
e la città vivrebbe
ancora inutile,
ancora saggia
nel festino della sua fine
cronica,
fiorendo nella livida civiltà
madreperlare
dai giardini tristissimi,
un arborare
di piante atroci
risvegliate alle insolite voci
dell'usignolo futurista.
Ed il mio canto, che rattrista,
ondeggerebbe in tono
minore
nelle strade intirizzite:
per ridestare nelle mura ferite
dalle beghine,
la fantastica oscurità del suono!



Est locanda?

Il mendicante grigio che bestemmia e borbotta
nel vento, che scompiglia
gli stracci luridi della sua gualdrappa bisunta
attizza un piccolo fuoco di sterco di cavallo,
e cova il lampo giallo
con gli occhi lividi
accarezzando i riflessi
come capigliature disciolte
in un angolo della notte insonne.

Piove. Ogni nube rovescia
la sua ricchezza.
Ed il cielo risuona
del galoppo misurato dell'acqua
che sbatacchia,
risciacqua.
le mille goccie del suo pianto.
Ogni foresta, apre il cuore
vegetale che dorme,
e beve.
Palpita, si distende,
Scatta.
Un fulmine passa con la sua mitria scarlatta,
Un orologio suona,
Una civetta stride.
E l'ora della solitudine, che tuona
nelle gole umide del silenzio,
incide
la sua marcia funebre.

Il mendicante sorpreso
dalla tempesta, è più pigro.
Non ha cielo e non ha capanna:
s'accompagna col vento
che lo fascia di freddo.
Varca la strada e naviga il pantano
sordo; sguazza nelle cuora,
calpesta i giunchi,
sfoglia il roseto solitario;
vaga come in un sogno senza limite:
la via, più breve è del suo sogno
che inghiotte ogni terra
ed ogni cielo.
E la bestemmia è il canto più soave
e più celeste
che ritma il passo ribelle,
chiuso in un barlume di pioggia.

Ma nella via, si giunge
prima che nel sogno, ad una porta
sbarrata.
Si batte. Toc! Toc!
Si grida: Aprite! Fà freddo!
La notte si è rovesciata come una fiumana!
Si domanda: chi è?
E la voce è lontana
e viene d'oltre la morte.
- Aprite! Est locanda?
Pagheremo lo scotto,
non abbiate paura!
E la voce domanda: Chi è?
- Un mendicante,
che rifiuta elemosina d'amore,
ed ha un tesoro nella
spugna delle sue vesti.

Se conosceste i suoi occhi celesti
che vedono!...
Aspetta.
E batte ancora
poi che la voce interna è più lontana.
e si tace.
- Aprite! Est locanda?
O taglieremo le vostre
treccie d'oro e di sole,
se troveremo un pertugio
per entrare!
- Aprite! - Ogni viandante
notturno è un assassino...
Avete odor di sangue
caldo nella voce!

Il mendicante si raccoglie
sotto l'arcata.
Veste la sua schiena
con la porta che è chiusa.
E batte ancora
più del suo cuore
più d'ogni sua vena,
immobile, su quella soglia
che non potrà passare....
Gratta il battente con la mano tozza,
chiama, impreca,
sospira, si lamenta
perchè il vento lo spettina
e il gelo e la tormenta
lo denudano.
Piange. E il suo pianto
gorgoglia nella strozza.
- Dunque non aprirete
quest'orribile prigione,
che vi asserraglia?
La pioggia si sparpaglia
nella raffica;
gli alberi si piegano;
le rame ignude,
nel sudario delle foglie
piangono lunghe stille di lacrime...
- Maledetta voi siate
femina dal cuore oceanico!
Ponte di pietra che guidate
la corrente del sentimento
fra due argini sempre eguali!
Maledetta per il ventre
che vi generò!
Maledetta per la barbarie
che non vi uccise nel nascere!
Maledetta per la gioia
che vi dette la carne in foia!

E la tempesta s'affila
come una falce sola,
e lo frusta, e lo staffila, e lo raggricchia
nella nicchia del suo lamento,
finchè stanco,
l'uomo s'addormenta sul suo grido
ed il corpo si ripiega
e gli occhi s'annegano nel sonno,
e s'acquetano le paure
delle pupille fuggitive.

L'anima pulsa come una grancassa dal suono
velato, in un'orchestra
di contrabbassi diavoleschi.
La pioggia scande a rabeschi,
implacabilmente,
con la marcia trionfale,
sotto la volta della porta bassa,
questo palpito perverso che non muore,
questo frullar d'ale
nel vuoto
che rimbomba
nostalgicamente
in ogni fibra della carne,
e in ogni cellula del cervello
sprizza nuove scintille
in un fiammeggiare elettrico d'incendio;
a cento, a duecento, a mille.

Allora, qualcuno si desta nella casa,
scuote la coperta grave di sonno,
infila le ciabatte,
mentre al mendicante sembra ancora di battere
in sogno, all'implacabile porta chiusa.
S'ode nell'interno il frusciare
dei piedi sul marmo freddo.
Cigola nell'ombra opaca, una finestra
che si spalanca, con la pigrizia rugginosa
della sua vecchiezza gaia.
E qualcuno s'affaccia
con prudenza: sotto la doccia
che scende dalla grondaia.
tic! tic! tic! tic! tic! tic! tic!
Abbaia un cane. Abbaia. Abbaia.

- Ma chi dunque insiste così
nel domandar locanda?
Si muove nel gomitolo
degli stracci, l'ombra prigioniera
che conosce la voce
d'insidia e di carezza
che cade dalla finestra.
- Non mi conoscete?
- Si.
Non mi conoscete più!
Son Tristano! Romeo!
Don Giovanni che agonizza!
Son l'amante ideale
sognato nelle notti di maggio:
quando l'odor dei prati e della luna
mette una epilessia di baccanale
in ogni sogno!
Sono l'ombra veduta
sotto il ramo di mandorlo,
nella serenata bizzarra di una bohème sentimentale
a cavalcioni della chitarra che imbrocca
da se la cantata,
ed ho un garofano in bocca!

Il mio sospiro v'ha raggiunto
e v'ha fatto tremare:
se discioglieste le chiome rosse
salirei fino ai vostri ginocchi,
e forse non vi pentireste
d'accogliermi nel letto caldo d'avventura!...
- Ho paura! Andatevene! Ho paura!
La vostra voce è sì strana!
Ritiratevi, dunque, col vostro cadavere
nella cortina delle tempeste!
Avete odor di sangue
nella voce. E le vostre mani
grattano con troppa cupidigia la mia porta
per prometter carezze!

Allora, il mendicante solleva
l'ostia candida delle mani
lavate dall'acqua del cielo,
e le mostra nell'oscurità
come un'anima radiale viva...
Il vento si diffonde
con un gelido fluire di tubercolosi
portando in se brividi di febbre quartana.
La notte ingozza da mille gole
l'acqua, si rotola nella raffica,
e par sospesa in quell'ora
di terrore.
E la finestra si richiude
col cigolìo stanco della sua lamentela:
velando, a un tratto, coi vetri appannati
il tremito giallognolo di una candela
accesa.

Il mendicante non sa più che gridare
a quell'insonne destata nella sua notte
dal cenno di richiamo
di un vagabondo perduto.
Non ha più voce, ed è tardi,
troppo tardi, per cominciare di nuovo
a battere la porta sorda.
Pensa alla donna che chiude
gli occhi divini, sul guanciale tiepido,
e la bocca audace ai morsi
per non dar sangue ai rimorsi
cosl, come il povero ai pidocchi,
e s'attacca ai battenti
con le due braccia tese,
col ronzio negli orecchi
della morte che sopravviene
e scende nelle sue vene
avvelenate!...

 *
* *

All'alba, canto di galli
in un'orchestra solare
inonda con un fascio di rame vivo
lo squallido paese novembrino
che la notte ha flagellato
col cilicio delle sue raffiche.
E il mendicante tristo
appare in uno sfondo bizantino
irrigidito ai due battenti della sua tappa:
crocifisso come Cristo!



Una sera.

Campanili di montagna
spennellati dagli abeti silenziosi,
bianchi nidi di campane che cinguettano
il risveglio delle rondini;
chiome verdi di prati
pettinati dal dente ridanciano dei rastrelli,
ecco: scende l'ora grigia delle nuvole.

E la strada si diffonde sotto il passo
dei cavalli zoccolanti,
pigra, lenta ed involuta.
Piove un pulviscolo di pioggia,
soffia un' ala di vento,
qualche camino fumiga nubi diverse
più grigie, nel grigiore diafano della sera.

Tintinnabuli tristi piangono nell'ombra nera.
E la mandra s'accoscia nel bivacco.
Per ogni silenzio trascorre la verde
lamentela. Un muggito tiepido
vapora. Odor di latte e di fieno
s'esala dalle mammelle, dalle zangole, dai pastori.
Canta la stupidità placida della notte,
discesa con un brusio di passante
affrettata verso la mèta, in ritardo.

Allora, il vento accarezza,
morbidamente, la tenebra vestita di nebbia,
e scavalca le nubi, e torna alla montagna
col corteggio dell'aerea galoppata.
Qualche processione, sotto un baldacchino bisunto
cerca la via che si torce nel fianco della notte....
Qualche lucignolo si accende nella più profonda
gola del mistero,
arrossa l'occhio quadrato di una finestra,
arroventa il silenzio di una ferita luminosa.

Chiusi cosi nella rete dell'oscurità,
noi pensiamo alle vie che non valicheremo
ed il nostro occhio oltrepassa inutilmente
l'ultimo confine, ove giunga, senza pagar gabella.
Ogni casa ci chiama,
noi fuggiamo ogni casa!
Ogni albero ci invita all'albergo della sua frasca,
odor di zuppa di cipolle
si confonde all'odore della vicina burrasca.

Tra poco, il campanile destatosi all'improvviso
tuonerà contro la grandine mitragliata dalle nubi:
sotto le coltri, penseremo la fatica degli uomini,
e il singhiozzo degli alberi agitati,
ci sembrerà un'inutile cantastoria
mal rimata allo scrosciare dei fulmini.
Buonanotte.


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