L' origine delle fonti

Poema inedito ed altre poesie scelte
di Cesare Arici, novellamente corrette
Milano, per Giuseppe Crespi, 1833

Libro IV

Da città popolose e da villaggi,
Da ben culte, uniformi, ampie pianure
Di cui per mille modi all' arti industri
Dell' uom s' arrese obbedïente il vario
Contegno: dove florido è il rigoglio
Della messe, e condotti a filo i solchi,
E disposta la selva, e l' abitato
Sorge agli usi diversi, e circoscritto
Dentro a' termini suoi morde il torrente
Gli schermi opposti e vi s' acqueta e passa:
Movi or meco a veder valli romite,
Verdi colli, addossati ispidi monti,
E vette inaccessibili e selvaggio
Di foreste silenzio e nevi eterne.
D' ogni opra umana intatte ivi natura
Le sue fattezze ancor serba gelosa
Di che stampolla da principio il divo
Architettore, e schietto il ver risponde
De' suoi misteri a chi la cerca. Or movi
Meco, Amalia, a veder l' alpe, che il sommo
Tien della terra, e che divisa e sparta
Per larghe falde, or sale di gran selve
Ombrata, or verde a' pascoli odorosi
Svolgesi aprica; ed or più sempre al cielo
Discoscesa levandosi e superba,
D' altr' erbe e d' altre piante, al culto ignote
De' nostri campi ammantasi; e mancando
Poscia il vigor de' germi, isterilita
Si diserta dal vento, algente e nuda;
E in nevi sempiterne e ghiacci avvolta,
Spenta ogni aura di vita, orrida tace.
Ma nel silenzio istesso e nella morte
D' ogni vita, lassù lento matura
Non manchevole mai di tutte quante
L' acque il principio, che raccolte in fiumi
Van di conserva a dissetar la terra.
Virtù novella, impeto e lena acquista
Al salir chi dai chiusi umidi campi
D' aer crasso, nei liberi tragitta
Aperti colli; alleviar si sente
Delle membra l' incarco, e largo aprirsi
Il respiro, e più lieta e più sincera
Nel vago sangue fremere la vita.
Nell' aprico terren che a piè dell' alpe
Leva lento, il piacer dolce ne chiama
Di cacce opime; dell' etereo mele
In domestiche piante l' odorato
Umor s' addensa; la vendemmia esulta
Più pregiata in sui tralci, che lo sparso
Zolfo insapora. Il piano erto si estolle
Indi a paschi salubri, a cui più vivo
Splende il sole, e più fresco l' aer fère,
E batte assiduo il vento; ivi sottentra
Altra di fiori e d' arbori famiglia,
D' irti climi decoro e dilettanza.
Ivi manca la vite, e dell' irsuto
Castagno e della quercia adombran folte
Le macchie, e dritto al ciel sorge l' altero
Frassino e l' oppio e il larice montano
E il cornio; e la foresta ognor più addentro
Di pecci atri s' infosca, e l' orror grave
Di coniferi abeti. Ivi tra quelle
Rinvolte ombre la baccara solinga
Di salvatica odora alma fragranza
E la rosa dell' alpi e il rodidendro;
Ivi fidato asilo hanno le timide
Lepri e le damme e il caprio, a cui la tema
Di rupe in rupe a disperati salti
Persuade; alla chioccia ivi diversa
Nasce la prole di costume e d' ala,
E stranio canto que' silenzj allegra
Di non più visti pellegrini augelli.
All' esil musco, all' eriche, ai licheni,
A distorte betulle ivi si schiudono
Solitudini, l' ultima segnando
Stanza a chi vive. D' un cotal temprato
Purpureo lume il ciel vi splende; il primo
Raggio vi brilla del mattino, e tardo
Cala il vespro; ma fredda ivi è del sole
La luce; e più che nol comporta uffizio
Vitale, arida l' aria ondeggia muta
Sovra que' piani: a cui se mai per vago
Animo ascende il venatore e tuona
Fulmineo scoppio, repentinamente
Vanisce il suol col lampo e l' odi appena.
A chi più innanzi investigando scande
Più rimote eminenze, e perigliarsi
Osa nel rischio di sentier' malvagi:
E gli basta poter contro gli spirti
Della freddura aquilonar che spira:
L' ultima regïone ecco palese
Farsegli agli occhi e il morto orrido regno
Della neve che intatta vi si affalda,
Nè per voltar di secoli o di casi
Si dissigilla. Ardito ad ogni meta
(Tanto preme in bennate anime il chiaro
Della gloria desire e della lode)
Fu già chi (1) ai rischi della morte incontro
Imperterrito stette; e dove pronto
Astòr non cala od aquila selvaggia,
Stampò l' orme vittrici e vi si assise.
E vide il portentoso Adula e Giura
E Rosa e Montebianco, che di tutti
Vince l' altezza; e venne ai non concessi
Regni ai viventi, ai gioghi, a le squarciate
Retiche valli, che in perpetuo verno
Lor fato ineluttabile sommerse.
Or senza vento e a gran falde, or condotto
A turbini, lucente e polveroso
Neva gran nembo in sul cacume e posa
Di que' deserti per ben dieci lune:
Si che a torri, a piramidi, a bizzarre
Forme il capo nevoso ergon le rupi.
E come più si spazia o dritto cala
Dell' eminenza il fianco, si converte
La neve intatta al basso, o vi s' aggela
Calcandosi ed impietra; infin che a miti
Soli ammollata, o dal ventar battuta
Delle bufere, o dal cresciuto pondo
Vinta, si sfende e sperpera, rotandosi
A gran moli dal culmine dirotto.
Quel che per tante etadi e volger tanto
Di vicende e di soli si trabalza
Giù dall' erto, s' aduna a crescer fondo
Di sopposte vallee, che la mitezza
Nè la virtude rallegrò del sole
Da ch' ei risplende in cielo, e tutte cose
Vede e governa; nè sembianza han elle
Di valli, ma di pelaghi e di laghi
Tramezzati nell' alpe, che l' alterno
Gelar de' verni assidera e costrigne.
Divelte le valanghe ivi si spargono,
Vi si accalcan le nevi; e fuse in onda
Dall' eminenze a' tepid' austri, piovono
Altre intatte apprendendo antiche nevi:
Sì che di tutto insiem fassi concreta
Di lividi e splendenti orridi ghiaccj
Landa enorme: qual mar, se accavallate
L' onde in burrasca, per miracol nuovo
Dal gran contrasto si ristesse immoto.
Ma se nuova ad ogn' anno a que' valloni
Ghiaccia si cola e preme e vi si eterna,
Non fia però che tanto innanzi acquisti
Nell' uman culto, e della terra insulti
Ai ridenti giardini; altre s' adoprano
Leggi in contrario al crescere di tanta
Calamitade. Indarno, e di sognate
Sciagure infesto augurator, parlava
Chi collo andar de' secoli freddarsi
Creduto ha il sole e in un con quello il mondo;
Si che spenta di vita ogni favilla
Novellamente, e da benigni influssi
Partendosi il diviso orbe, giacersi
In sua mole dovesse, inerte e muto:
O dal cieco suo pondo, oltre ai confini
D' ogni creata cosa, andar rapito
E solitario tra gli spazj ignoti
Di vôta e fredda tenebria. Costretto
Terrà suoi regni il verno, al nostro cielo
L' alma letizia abbonderà di vivi
Splendidi soli; di quell' astro eterna
Sarà la gloria: che ne informa a miti
Sensi, a nobili voglie, e dell' ingegno
Al sovrano valor, che dallo schiavo
I liberi discerne e i generosi.
A gara la sedente, infausta mole
Della ghiaccia dissoda, infrena e scema
La piova e il sole a' giorni estivi, e il caldo
Spirto degli austri: e molto anco ne sperde
II vaporar che fanno e ghiaccio e neve.
Dappoi sotterra, come più discendi
E cerchi in basso, un molle tepor cova
Che doma e fonde l' aggelar soperchio
Della gran massa, cui traforan mille
Rigagnoli e stemprate acque racchiuse
Tra falda e falda: ond' anco a duri tempi
Recasi molto da ghiacciaj tributo
Da valle a valle valicando a' fiumi.
Per contrario poter quindi a scemarsi
Vanno con veci alterne e a sciorsi in onda
L' irte ghiacciaje che l' alpe al gente annida;
E come più sottil crosta le veli
(Per impeto che addentro urti e conquassi
Di correnti acque, o vento ivi concetto
Che si sprigioni, o frangersi sovr' elle
Di rotate valanghe e di ruine
Diveltesi dall' alto) orribilmente
Sfendonsi a mezzo col fragor del tuono,
Che l' eco de le valli e degli spechi
Vieppiù lungi moltiplica e discorda:
Unico suon che gli orridi silenzj
Rompe del loco abbandonato; e queta
Ogni paura, ogn' aura, un più solenne
E profondo silenzio indi succede.
Tutto allor si rimescola e inusati
Movimenti concepe il campo infranto
Delle ghiaccie: e si affondano e sommergonsi
Torriti massi con gran tonfo, e schizzano
Quinci e quindi sospinte a la pressura
Acque sepolte, i lividi correndo
Seni che il prepotente crollo insolca;
Sorgon da fondi a galla altri gran massi
Da lunghe età dimenticati; inchini
Altri da gioghi soprastanti incalzano
L'un l' altro, e via discorrono addossandosi
D'altri volumi al rischio e a la postura.
Ma quel ch'alto percote e ne sgomenta
Fra quelle solitudini improvviso
Suon della ghiaccia che si frange, indizio
Porge almanco che tutta ivi non tace
Eternalmente la natura, additta
A perpetuo silenzio: di che nulla
Più torna formidabile a' mortali
Quaggiuso. E quanto incresca, e di nemica
Inerzia occupi i sensi e pesi al core,
Nessuno il seppe, nè più addentro intese,
Dell' arrischiato, che se stesso ai campi
Non conceduti dell' olimpo affida.
Anelante dal canape disciolto,
A la frequenza del gran circo, ai plausi
Del popolo accorrente alto s' invola,
E vola e al ciel s' avventa il portentoso
Intesto orbe, cui tende entro e dilata
Liev' aura accolta, e i termini abbandona
Della terra; il trambusto, il plauso, il grido,
Il mormorar confuso or più non giugne
Di questo mondo al volator navile,
In più sublimi regioni assunto.
Ville e cittadi e selve e laghi e mari
Scompajon ratto, gli alti monti adeguansi,
Ogni vista si mesce e si ritonda
Per lui che rapidissimo vïaggia
Della folgore i regni e della luce.
Ma di quante lo assediano paure
(Più che non puote il bàttito di tutta
La persona, e l' affanno, e degli orecchi
Il sibilo, e degli occhi il veder manco)
La tremenda di tutte e non mai prima
Sopravvenuta all' animo, è il silenzio
Che solenne lo assale: il tetro avviso
Recando all' imperterrito, che solo
Sta contro al fato, e che solo si adopra,
E che nè testimonio nè soccorso
D' altri in tanta si speri ardita impresa.
Cotale a certi tempi agita e volge
Commovimento la vernal dimora
E i seggi della morte inabitati;
E tal s' adopra la natura, industre
Dispensiera di modi e di cagioni
Con che la vita si sostenta e vige
Rinnovellando sè medesma. In serbo
Quel che i verni adunâr tra le solcate
Rocce alpestri, risolvesi agli spirti
D'aure benigne, ai tepidi del sole
Ricreamenti, e via di balzo in balzo
Agevoli e costanti acque labendo
Da riposti ghiacciai, da valle a valle
Calando a salti, a rivoli, a torrenti,
Fan che perenne abbondi al piano e cresca
La correntia de' fiumi; ed altre, assorte
Sotterra insinuandosi per ciechi
Scoscendimenti, zampillando emergono
Quando che sia di lor latebre in fonte.
Queste ponea condizïoni e modi
Di più riviere al generarsi il divo
Dell' universo ordinator; non tutte
Traggon principio tuttavia dai tetri
Orror del verno; e dove anco non segga
Eterno ai monti, e ne diparta il mite
Trattabil cielo da la maledetta
Nordica bruma, a pro' dell' uom contempra
Gli accorgimenti suoi, madre benigna,
A tanto effetto la natura. Il sommo
Vi s' adopra de' monti e della selva,
Che molta e sparsa di cotante frondi,
Leva in sui poggi coronati; amico
Serba la selva della terra il fresco
A rai del sole, le correnti affrena
Di steril vento, i torridi rattempra
E i freddi climi; e di lassù beendo
Virtù dall' etra per le foglie e i tronchi,
La purissima stilla acqua sorgente.
Chè dove la si sbarbichi e divella
Ingiusto ferro, isterilir si mira
De' monti il dosso discoverto, e il fianco
Farsi a stoppie, a prunaglie infausto campo:
E campo di conflitti e scorribande
Al vento; che di là non rattenuto
Da schermo chè il rallenti, a la pianura
Reca i flagelli e le tempeste, e l' impeto
Più libero percote e la scompiglia.
Col mancar della selva il volger manca
De' ruscelletti ancora; e quella istessa
Allegratrice di verzure, estiva
Pioggia che il bosco tra le frondi implica
E le radici e con misura ai clivi
Compartisce dall' alto, ai dorsi ignudi
Cruda si sparge e subitana, e corre
Sgretolando e portandone il terriccio,
E dilaga e precipita a torrenti.
Anzi di fonti indizio altro più chiaro
Delle selve non parla a chi le vie
Tenta ardito e al deserto osa fidarsi.
Fra' squallidi, arenosi, asciutti campi
D' Africa e d' Asia, udito avrai, siccome
Per incantesmo, occorrano agli erranti
Le celebrate Oàsi: un terren culto
Quasi a diletto, florido di molta
Verzura, un dolce april, che al peregrino
Canto di mille e mille augei s' allegra.
Questi vivi ricinti, a cui le morte
Solitudini intorno acquistâr nome
Di paradiso, durano perenni
E beati dall' ombra che gli avviva
E li protegge d' ospital foresta,
Generatrice delle fonti. Indizio
A raminghe tribù sorge di queste
E testimonio non fallibil mai
La selva: più che fresca aura che voli
Vivida, intensa, e più che la medesma
Vista che spesso da lontan le additi.
Sai che funesta illusïon sconfida
Anco degli occhi, e l' apparenza indarno
Talor di laghi espressi a perir mena
I sitibondi nel deserto aprico.
Così chi l' Ammonitide e la prisca
Memfi cercando e di Canòpo i sacri
Monumenti, le candide attraversa
Mobili sabbie dell' Egittto, in fallo
Si smarrisce e fatica indarno e stenta;
E nello error, non tanto lo stringente
Sitir lo adduce e il luccicar lontano
Nel simulato vaneggiar d' un lago,
Quanto nemico un dèmone, un sinistro
Genio, una (2) fata di que' lochi: a cui
Talentano gli inganni, e le speranze
Deluse, e il mal de' sciaurati e il pianto.
A fil dell'orizzonte, e via sovresso
Al bianco spazzo dell' arena, aprirsi
Ecco agli sguardi, del color ridente
Di che lo stampa il ciel sereno, un vasto
Pelago d' acque: e dentrovi, siccome
Sparse isolette, emergere di verdi
Cespi un conserto e d' insolcate glebe.
Che più? se manifeste e capovolte
Le circostanti immagini reflesse
Treman nell' acqua che lor sorge intorno!
Ma come più t' appressi, e più s' arretra
E perde il guazzo, e il margine mentito
Stringersi vedi ed isvanir l'incanto:
Mentre nuova crearsi in lontananza
Miri altra scena e nuovi inganni. Ardente
Dal sol che vi divampa, il terren scalda
L' aer che v' incombe e lo dirada, e affina,
Rispetto a quel ch' alto discorre; il raggio
Che diritto dal ciel cala a traverso
Le varie falde, come più penètra
Dalle dense alle rade, in arco flette,
Indi risale ancor. doppia l' immago
De' visti oggetti altrui creando. Al guardo,
Siccome speglio, il cielo appar reflesso
Nella pianura, e dentrovi a rovescio
Quanto da quella più distinto appare.
Il pian che largo a piè d' alte montagne
Si spazia (o sia che il verno le ricinga
Di nevi e ghiacci, o che la vigorosa
Selva inghirlandi e in forti ombre ravvolga)
Non mai sostien d'acque difetto, e bello
E grato al pio coltivator s' arrende.
Quando piu corre asciutto e più cocente
L' anno, dai ghiacci vieppiù si solve
Copia di rivi a ristorarlo: in serbo
Ve li accolse natura; e di rimando,
Dall' etra le gran selve a sè convertono
Quanto, attratto dal sole, esala e fuma
Dal sacro mare e dalla terra. A volo
Dell' alpe insalutati i nudi gioghi
Varcan le nubi per lo vano erranti
Di freddo ciel, non li toccando; e starsi
Lente, immote le vedi, e calar giuso
E spargersi e ravvolgersi, disfatte
In nebbie, in guazzi, in piova, in sulle cime
Coronate di boschi. E le foreste
Con le sue mille avvolte ombre e richiami,
Col fresco rezzo del terren, le alletta
Dall'alto, intrattenendole, e impigliando
Il diffuso vapor che si rinnova
Ad ogni brezza aquilonar. Da tante
Frondi, da tronchi l' umidor si beve:
Cui le radici avvolgono e intraprendono
Siccome spugne, non che il pingue, ombrato
Terriccio, de le selve almo tesoro;
Perchè sotterra infuso e compartito
Con misura, le gelide alimenti
Scaturigini in basso, e si disvaghi
Correndo a valle e convenendo a' fiumi.
Per si palese magisterio i fonti
Traggon principio, e trasmutata in dolce
L' acqua del mar, dal basso all' alpi eccelse
Novellamente si traduce e crea.
Come dall' are a Dio fuma devoto
Arso nembo d' olibani e d' aromi,
Cosi da tutto l' universo ascende
Dinanzi al sol quanto dall' acque e quanto
Dalla madida terra il calor solve;
Di sonore procelle erra in sui vanni
Diviso, e vola a la balía del vento
Che lo sperpera o addensa, e per li campi
Della luce ravvolto e combattuto,
S' affina e purga e ricomponsi a mille
Accidenti e sembianze. Indi (lorquando
Aura diversa il coglia, o che lo infiammi
Il vibrar dello sparso etereo foco)
Nello spirabil aëre incorrotto
Vanisce agile e sciolto, o ponderoso
Impigrisce, e di sè largo fa intento
Sovra la terra, e il cielo annotta e toglie.
Secondo che s' imbatte, al freddi gioghi
Neva dell' alpi e le conserve accresce
Di che la fonte si ristori a tempi
Di siccitade, od altramente in piova
Cade converso. Accoltasi da tutte
Parti, al tumido mare ond' ella emerse
Per l' universo affretta a la distesa
L' acqua, or tra via lentandosi, or veloce
E superba: là d' onde ancor, per nuovo
Lavor dell' igneo sole a più remoti
Seggi dell' etra a vaporar costretta,
Torna dell' alpe a riveder le cime.
Così senza aver tregue ha permutanza
Da sè medesma di natura e loco,
E movimento con vicenda alterna
Che l' affatica e stimola e rinnova;
Nè scema, nè s' accresce: in fin dal giorno
Che all' impulso divin, tra le fiammanti
Sfere e gli astri volubili librata,
Sovr' a' cardini suoi volge la terra.
Se non che spesso ancor, senza che legge
Natural vi s' adopri, Iddio si piacque
Nel suo poter, che di sotterra a' buoni
Salisse un fonte: a ricordar qualcuna
De le sue mille maraviglie, ai prieghi
De' pii concesse, nel valor del santo
E caro nome di Maria. Perenne
Non altrimenti e benedetto un fonte
Mirabilmente a te surse, a memoria
De' padri miei, bellissimo de' colli,
Che da la Stella ti rinomi: Engaddi
Dirti potrei della mia Brescia, a cui
Tanto animosa e lieta in sui pregiati
Tralci maturi la vendemmia, e Stella
Pur ti chiami da Lei, che benedetta
Fra le donne, e che madre e vergin santa,
Dall' alma stella del mattin si dice.
Un tempo di que' lochi era lamento
E desiderio di ruscelli; ignuda
Perocchè spesso si smarria la falda
Delle colline, ed assetati e munti
Dall' arsura, moriano a la convalle
Gli arbori e il tralcio, e lunga e faticosa
Era la cura di cercar lontano
Da pozzi e da sorgenti acqua alla state:
Si che sempre di carri una faccenda
Movea intorno, un' immagine bugiarda
Di più vendemmie, e vegge e tini e dogli.
Ma dal grembo del cavo arido colle
Contro ogri speme si dischiuse in basso
Un limpido ruscel, che la pietosa
Storia d' una fanciulla e la credenza
De' posteri fe' sacro a la gran Donna.
Da casa poveretta, e tra le angosce
Del vedersi morire, una dolente
Genitrice sponea di cara prole
II carco, e della Vergine chiamarla
Nel dolce nome di Maria promise,
Se d' una viva, incolume la madre,
Dato le fosse allevïarsi. Il voto
Sortì l' effetto; e infin dagli anni primi,
Come la madre avea pregato, ottenne
La pargoletta indole egregia e casti
Proponimenti, di serbarsi pura
E custodirsi intatta e verginella
A le nozze degli angeli e all' amore
Dell' alto nome che le venne in sorte.
Dal tumulto divisa e dalla festa
D' altre compagne, dall' infanzia al core
Desio le nacque di raccorsi in chiusa
Cella, ai silenzj, ai sacri altari e cignersi
Della milizia, onde Maria francheggia
Le sue devote da' perigli; e come
Fosse ricordo a sè medesma e pegno
Di promessa, un cotal cinto recava
Sottesso ai bianchi lini, della stampa
Segnato della Vergine: armadura,
Inclito scudo, contro cui non puote
Forza nè fraude del giurato inferno.
Del terzo lustro ai termini volgea
La giovinetta, a sante opre raccolta
Ed agli ufficj ancor della diletta
Povera casa: a pascere le piene
Sue vaccherelle, a tesser lane, a svolgere
Dalla conocchia i fusi; e vieppiù spesso,
Come devoto amor dentro parlava,
Sedendo immota e tacita guardando
Al sereno de' cieli, o fin dal core
Aprirsi, inni cantando e litanìe.
E dolce all' alba e in sul merigge e a sera
Suonavano per lei sovra que' colli
Della Vergin le laudi, e della Sposa,
E della Madre: arca del patto, e stella
A' naviganti, e porta alma del cielo,
E torre armata in guerra, e degli afflitti
Consolatrice; e si mescea quel canto
Di gaudio al lento salmeggiar prolisso
Del ravvolto fra pini ermo ricinto
Che dell'aspro Camaldoli surgea
Sul dosso alpestre; e desto a le soavi
Note il romito fraticel, dal monte
Che da la stella tuttavia si noma,
Col toccar de le squille a' più lontani
Significava del mattin vicino
L' ora e il devoto di Maria saluto.
Cosi crescea negli anni a la foresta
La giovinetta, quando che nemico
Un dèmone gli sguardi e la baldanza
Contro le armò di mandrïan selvaggi
Che pe' greppi pascean del solitario
Loco. Notato avean la voce e l' orme,
E la fidanza di costei, secura
Di sè medesma nel tacer solingo
Dell' alba e della sera al più deserto;
Si che per gioco indegno o farle oltraggio
(Come da' veltri con furor si corre
A più timida belva) insieme accolti
Nell' insulto crudele, a la meschina
Posero insidie; e l' agitar con lunghe.
Subite fughe via per macchie e sterpi
E dirupi e pericoli dell' erto
Colle: fra quali orribile un abisso
Apriasi in basso, un pozzo, a cui nessuno
Ponea fondo la vista e la paura.
Caso che fosse, o di morir piuttosto,
Proponimento nel vedersi aggiunta
In forza altrui, la misera ristette
In su la bocca, immobile guardando
Al precipizio, e capovolta in giuso,
Maria chiamando, si gittò. Sorvennero
Gli insecutori a la vorago; fosse
Il mal talento tuttavia deluso
Che non lentava, o furor pazzo, o tema
Che, non finita, riuscir potesse
Viva da quella a rivelarne il fatto:
Dièrsi intorno a rotar sassi, a lanciarli
Con non più vista crudeltà nel vano
Di quell' abisso; perchè infranta e pesta
Laggiù morisse nell' oblio sepolta.
Stolti! chè a guardia di costei vegliava
L' Onnipotente! A tarda notte e sola
Con pietoso muggir venne dai paschi
La vaccherella: unico al mondo e muto
Testimonio del caso; indarno incontra
I genitor le mossero, cercando
Per ogni verso della via solinga
Gli ardui passi e le stanze, e a tutta lena
Chiamandola e gridandola per nome;
Ma queto il grido, si moria perduto
Tra le valli l' inutile lamento.
Così della smarrita a' più lontani
Corse la voce, e n' uscir varie e molte
Conghietture; ma senza altro conforto
Oltre ogni dir fu il pianto e la pietade
Degli orbati parenti; infin che al terzo
Giorno venuti a riveder de' siti
Ogni contegno, si ammirâr che fitta
Del pozzo formidabile a la bocca
Stesse, di mesta in atto e di gemente,
La vaccherella: umana e docil belva,
Cui di tenere frondi ognor pascea
Di sua man propria l' infelice. E tutti
Sospettâr che per entro a la voragine
Pericolata ella si fosse; e in questo
Pensier collacrimando ed abbracciandosi
L' un l' altro, fu sortito a più valenti
Della persona di collarsi ad imo
Di quel burrato, per ritrarne il morto
Corpo: chè viva al certo era sì poco
Di riaverla il credere, da molto
Parer ventura di trovarla, e porle
Sacro un loco a l' onor di sepoltura.
Arrischiato fra tutti un vigoroso
Giovine si proferse, accomandato.
A girella scorrevole, e da funi
Attraversato, giù per gli sporgenti
Rocchi della voragine e la fredda
Non mai tentata tenebria. Calando
Più sempre, di correnti acque profonde
Intorno udissi il fremere e la morta
Aura agitarsi; e tocco indi su molle
Di sabbie e d' alghe umido letto, al tenue
Raggio intromesso da spiragli opposti
In quella tomba, come se dormisse
Profondamente, ravvisò giacersi
La poverella, e intorno a lei d' accolti
Sassi una frana. Acuto mise un grido
A que' di sopra, e come potè meglio
Sull' omero carcò la derelitta
Vergine; e scosso il fune, al pianto, al plauso
Di tanti accorsi riuscì dal cupo
Con la redenta, incolume d' offese.
Di quale amor foss' ella amata, e quanto
A tutti cara, di veder gliel tolse
L' alto mirabil sonno in lei diffuso
Al cominciar di sua sciagura; A' sensi
Tornando alfin la tramortita, e chiesta
Con amor de' suoi casi, altra non s' ebbe
Da lei risposta= Affaticata e stanca
Dall' opre e da più corse, una gran voglia
Di riposarmi e di dormir mi prese:
E più che mai dirsi potesse, amico
Soave sonno mi sorvenne. E in questo
Vanir de' sensi, mi parea dinanzi
Starmi, di tutto lo splendor del cielo
Fregiata e in atto di dolcezza pieno,
La Vergin santa: e in un con ella un riso
D' Angeli, un gaudio amabile, una festa
Di verginelle: quai non vide il mondo,
Nè cape uman pensiero. A diportarmi
Con seco ella m' addusse a non più visti
Giardini, a cui purpureo il ciel sorride
E di care fragranze infiora aprile;
Per l' aer luminoso ivi correa
Desto dall' arpe angeliche un concento
Di melodie... Ma come e d'onde, ahi lassa!
Tanto beata visïon disparve? ==
Fu allor, che a portentosa opra si scrisse
Ed al soccorso di Maria quel fatto
Mirabile, e gridàr tutti a una voce:
Miracolo! e fu allor, che da' parenti
De la fanciulla uscì concorde e saldo
Proponimento, d' affermarlo a tutti
I venturi: ponendo un testimonio
Di veritade. Rispondente all' alto
Di quello sfendimento, a piè del colle
Loco si elesse a rustico delubro
Che a' vïandanti ancor fosse ricordo
Del beneficio; e al primo aprir del sacro
Terreno, ecco uscir limpido, e sincero
Abbondarvi un ruscello. Infranta cadde
Dimenticata nell' oblio degli anni
L' edicola devota; eterno dura
pur tuttavia fra quelle genti il caro
Rimemorarsi di Maria, nel fonte
Desiderato che fra lor si schiuse.



FINE DEL LIBRO QUARTO



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