L' origine delle fonti

Poema inedito ed altre poesie scelte
di Cesare Arici, novellamente corrette
Milano, per Giuseppe Crespi, 1833

Libro III

Così lungi dal ver l'origin prima
Si ripetea dei fonti; e come l'arte
Dell'uom procura e studia e si travaglia
Per complicanze, e stenta indarno e manca,
Tal via creduto ancor fu che seguisse
La d'ogn'arte gran madre alma natura.
Stolti! però che semplice, il diverso
Suo scopo aggiugne ov'ella intenda, e vince
Non pur l'opra, ma il pronto e architettore
D'ogni arcana scïenza uman pensiero.
Così perchè risulti a la pupilla
Il settemplice raggio e l'iri imiti,
Quella si prova lungamente e cerca
Nell'adamante; e foggia angoli e facce,
Stipiti e scudi, e lima a tondo e morde,
E rappiana e comparte. Agevol segue
Questa altro modo; e quanti in sulle prime
Ore dell'alba in cielo erran sospesi
Vapori, o gemman l'erbe e i fior del campo,
Altrettanti allo sguardo ardon zaffiri,
Verdi smeraldi, aurei topazj e vivi
Piropi e lustri, onde la terra e il cielo
Nuove ognor meraviglie apre ai mortali.
Varia e secura in sua virtù, procede
A più solenni intendimenti accinta
La natura; nè quello onde la vita
Dell'universo si sostenta, affida
De' casi all'incostante e fortunoso
Volgere. E il magisterio ampio dell'acque
Che attemprano l'ardente aura de' soli
Soprastanti, e che tutte della terra
Le vie mal note discorrendo, ai germi
Grazïoso alimento e vigoria
Recan di vita, al varïar d'incerte
E di conposte [sic] insieme arti e lavori
Non permise all'arbitrio. E chi l'effetto
Di cotant' opra argomentar potria
Da piccioli principj, e cagion sola
A tante erranti nell' aperto, o chiuse
Dentro terra, inesauste ampie riviere,
Por l' occulta del mare onda, conversa
Per foco in vapor lievi, e a gocce, a fili
Dal pertugio de' monti emersa in fiumi?
Chi allo stillar di nebbie e di rugiade
Da boglienti lavacri arrecar puote
Occasïone al volgersi di tante
Acque volume: al Rodano, al Tesino,
Al vago Reno, all' Istro, all' Eridàno,
Che dalle balze inospiti e selvagge
Per opposto sentir versa il nevato
Adula e Montevesulo e la Selva
Cui dier nome le avvolte ombre di Nera?
Chi al gocciar di lambicchi il portentoso
Nilo diriva, e il Negro ampio, che tanto
Paese all' assetata Africa bagna?
Che s' altri ancor delle dolci acque il pronto
Rifarsi a la balìa cieca commette
Di fochi occulti che le solva in fumo,
Meco trascenda i mari a le divise
Americhe: là dove appar gigante,
Non men per moli di gran monti erette
Fino a le stelle, e per l' invïolata
Maestà delle selve, in un col mondo
Di terra uscite; ma per altre ancora
Di possanza ammirande opre, natura.
Mova con meco ai campi immensi, agli ardui
Sovra cui si riposa incurvo il cielo
Gioghi dell' Ande solitarie; e tanta
Sciogliersi copia di dolci acque e rompere
Per tutto l' anno al mar vedrà per mille
Foci, che la dolcezza e la corrente,
Per lunghe vie tra i salsi flutti assorte,
Serbano intatta ai naviganti. All'urto
Di tal piena, divisi apronsi i mari,
Scambiano i climi; e della zona ardente
Sottesso a' rai, son miti aure d' aprile
E vigor d' erbe e rezzo di foreste.
La vergin terra istessa che la briga
Di tant' acque affatica, esagitata
Muta loco e si sfascia e si dissolve:
Sì che perpetuo un suon quelle rimote
Regïoni del mondo ultimo assorda.
Là più d' una riviera il fasto assume
Di gran madre dell' acque; e il suono e il moto
Tra via ne segue disugual la terra,
Che dal seggio polar ratto dismonta
A men selvaggi climi e a miglior culto:
Onde per salti e valichi e rimbalzi,
Del mar che la contrasta alle sonanti
Prode si caccia ruinosa e scarca.
Dentro l' intime terre, al più deserto,
Tra negre eccelse rupi ondeggia un lago
Cui di cento gran fiumi invian tributo
Vette solinghe in nevi eterne avvolte;
E col romor con che sorge e s'allarga
Co' fiotti a' lidi sterminati il magno
Mar d' Adlante, al ventar di quelle balze
Leva l' onde. Per rotti argini e sbarre
Mille si sforza in basso aditi e vie
E maggior campo invade, e le cognate
Acque a lontani pelaghi confonde
Da montane dischiusi altre sorgenti.
Nota prodigio di que' lochi, ascolta
Maraviglie! Affossato si raccoglie
Indi quel mar, stringendosi più sempre
In picciol letto di torriti scogli
Che lo serra e costrigne; a nodi, a vortici
Rapida corsa vi concepe, e vola;
Quando diritto a fil de' soprastanti
Piani repente il terren manca, e l' alveo
Con quello, che, fra macchie e fra burroni
Cala dall' alto. Dal ciglion supremo
Coll' impeto e il fragor di mille accolte
Insiem procelle, ardua si gitta al basso
D' una vorago quella gran riviera.
Qual sul cinghio dell' alpe, ai freddi spirti
Serenatori d' aquilon, minuta
Si turbina la neve e rilucente
Prima che voli in fiocchi e che si affaldi:
Cotal si mesce intorno a quel mirando
Vestibolo dell' acque e si rigira
Vaporosa una candida e sbattuta
Nebbia immensa, che il tuono e la ruina
A chi sta sopra del gran salto asconde.
Ma chi, sottano, al culmine dirotto
Invìa l' occhio, impendente a lui sul capo
A gran d' arco gittarsi spumeggiante
Di tempo in tempo e scorrere sospeso
Vede il flutto; e sottesso a crescer verdi
Le selve, e fiorir cespi, e fremer tutta
Di fresche aure montane ode la valle.
Tal, se magne agguardar scene ti aggrada
In piccioli soggetti, per vaghezza
L' industre fontanier diverte in largo
E sottil velo argentea polla, incurva
Sovra disposto calice d' eletti
Vividi fior, da vergini man côlti:
Perchè l' orezzo di quel mobil velo
Che li deliba e non li tocca, i vivi
Color ne serbi e le fragranze intatte
Di solitaria vergine all' amore.
Ma quel rubesto pelago, dai primi
Anni del mondo, tuttavia precipita
dall' eminenza, col romor del tuono,
E fra scogli rimbalza e spuma e bolle
E fuma; e al raggio che traverso indora,
Del sèròtino sole, ergonsi a volo
Da quel rinfranto in tante isole e punte
Mar combattuto di tant' acque, candide
Nuvolette; che splendide a vicenda
Di vaghe e moltiformi iridi miste,
Calan poscia e si sperdono, vagando
Sovra l' abisso che le inghiotte. Il salto
Valicato, e composto il turbamento,
E queto il suon della caduta e il moto,
Aperta regïon placido allaga
Con bei meandri tra foreste e colli
La correntía del flume; a dritta, a manca
Fuggon poscia perdute ambo le rive
Oltre ogni vista, e la pressura alterna
Sente della marina a cui discende:
Infìn che dello Adlantico ai sonori
Flutti i suoi dolci insala e vi si adegua.
Or chi dirà, che un tanto mar, per tante
Artiche terre discorrente ai lidi
Dell' oceàn, rapido a un' modo é sempre,
Da nebbie e fumi e tepide rugiade
Proceda: al lento vaporar che fanno
E trasmutarsi in dolci le salse acque
Per sopposti vulcani? A la bufera
Che delle quercie antiche i noderosi
Tronchi dischianta nelle selve e porta,
Qual mai savio diè capo il mover d' ala
Di pellegrino augel, che fende i campi
Del mobil etra e tratta l' aure a volo?
O chi più dalle nari e dagli sprazzi
Di formidato fìsitère avvia
Siòn marineresco inver' le nubi
Fra scoppj e lampi, onde poi scenda e avvolga
Ne la ruina il naufrago e l' affondi?
Ond' è che a più securo, a più solenne
Magisterio dell' acque il trasmutarsi
E l' affluenza riferir si volle:
A possanza immanchevole, per leggi
Nella materia in un col tempo impresse.
Distinta ella ab antico e circoscritta
Ne' quattro, come allor parve, elementi,
Passibil parve ancor di ciascheduno
L' essenza, e l' un per l' altro ingenerarsi
Alternamente: uscir dall' aria il foco,
Quella da questo: dalla terra l' acqua
Farsi, e da questa indi la terra, e l' aria
Freddandosi, stiparsi in vergin fonte.
Così tutto da tutto esser potea
Ingenerato costaggiù: crearsi
Dal contrario i contrarj, e del creato
Ogni sostanza trasmodarsi, uscendo
Dai primi aspetti, e forme e qualitadi
Impetrando, degli anni all' operoso
Volgere e al vario adoperar de' casi.
Che più? Dell' universo erasi fatto
Materia e moto; e quella, al mescer pronto
Di questi, fu creduto anco affinarsi,
Attenuarsi più che l' agil aura
Ch' ignea si vibra dalle nubi, e il puro
Vivido lampo della luce, e farsi
Vita e pensiere ed intelletto e voglie.
Così fra danze invereconde e lieti
Fantasimi e convivj e filtri e rose,
Insegnava l' antico archimandrita
De' gaüdenti nella dotta Atene;
Così nell' aule ai Cesari devote,
L' avaro a fatti e prodigo a parole
Sentenzïava austero sofo. Inteso
A scriver fondo a tutto l' universo,
Non disimili avvisi avvalorava
Lo Stagirita: oracolo per tante
Etadi accolto; innanzi a cui l' istessa
Delle menti reina, in umil atto
Sorgea di seggio e reverendo udia:
Da libera e viril fattasi, ahi colpa!
Balbuzïente e timida e servile.
Ponean questi al fluir de le perenni
Vene principio lo scambiarsi eterno
Dell' aria in acqua, che tra i vani assorta
Della terra, i montani antri penètri
Dal sol rimoti, in cui lo rezzo e l' ombra
Della notte moltiplica e costrigne
Eternal verno. E disse, ivi chetarsi
Suo mobil volo, gli atomi addensando,
E gelando più sempre inerte e pigra:
Cangiar suo stato, e immobile in sui rocchi
Aderir delle vôlte; infin che nuovo
Moto dal pondo natural concepe
Che la ritonda in gocciole e risolve
In rivoli. A veder scendi il contegno
De' spechi avvolti tra le vie del monte
D' onde perpetua nasce e geme l' onda:
Anco allor che da' soli adusta è l'erba
In sulle vette, e sibila agli estivi
Raggi la scopa, l' esil musco e il cardo.
Di subito capriccio il rigor fiede
Di quegli antri; dal lurido parete,
Dalle vôlte incombenti sporgon mille
Candido-brune stalattiti, assidua
Tra quelle e il musco che leggier si spalma,
L' acqua vïaggia lenta lenta, e il guazzo
Della terra s' avvia per le insolcate
Giravolte; più innanzi il gemitìo
Delle caverne si dilaga: e in tanto
Gocciar dall' alto a un tempo istesso, e piovere
Di vasche in pozzi, in baratri, in buriati,
A tal convento di ruscelli, intenso
Via per gli antri un romor sordo s' allarga
Che mette a chi s' appresta orror del loco.
Questo è a veder non dove in sulle vette
Siede la neve e il ghiaccio, o dove molta
Dal ciel la piova a giorni estivi abbonda;
Ma sì là dove ancor dinanzi al sole
Nembo non sorge, ed al niliaco e all' indo
Sereno e caldo il cielo arde costante.
Or d' onde il tanto ingenerarsi, il fondersi
Nelle spelonche di tal copia? Occulto
Dirai che saglia dagli abissi il mare;
Ad annaffiarle, o basti a cotant' opra
Il ventilar di labile rugiada,
Che per l' aride zolle in giù trapeli
Nella tacita notte? O qual più intero
Oprar dell' incombente aere diffuso
Sovra tutto il creato, ove da quello
Sciorsi potesse equabile e perenne
L' ingenit' acqua? Come più la state
Ferve, e calda e leggier rade le piagge
L' aria che il vampo del gran Sirio affuoca
Tanto più cruda assidera nel vano
De le spelonche; sì che l' acqua in elle
Per intromesse correntie di freddi
Venti, più sempre vaporando gela.
A fronte, se il comporti, esci de' molti,
Di che sì spesso si pertugia il fianco
Delle montagne, aditi aperti; udrai
Per quelle invïolate ombre la morta
Aura agitarsi e fremere; ed uscirne
Tal freddo un vento, qual di vane spira
Se per lungo la corre e signoreggia.
Quindi ponea de' savj antichi il senno
Seggi ad Eolo possente il grembo ascoso
Di gran monti. Funesta indi ai nocchieri
È l' Eolia ventosa, e da quell' isole
Per fessi e cave e squarci a la marina
Si difila rugghiando il procelloso
Borea: dinanzi a cui ferve in tempesta
E danza il flutto, che l' etrusco lido
E il sebezio dal siculo divide
Dal fiero vento che dagli àntri emerge
A' dì più caldi non bugiardo avviso,
Si dedusse: che dentro a' latebrosi,
Rivolgimenti lo spirabil aere
Si rappigliasse per rigor novello
Che lo costipi in fresca onda montana;
Perocchè preme uguale e a tondo incombe
L' aere a' gran monti e facil vi s' addentra,
Più che la pioggia non farebbe o il lento
Delle nevi disfarsi, e per traverse,
Rigirandosi a' fondi irrequieto,
Gelido dagli spechi imi sospira.
Ma come che fra il chiuso aere e l' aperto
Gran divario di tempera intercede,
Così continua volge e romoreggia
Rapida la corrente, e la freddura
Che la coglie al tragitto, aduna e preme
L' acqueo vapor che l' aër seco mena
Comunque nol discerna occhio veggente;
E l' accolto umidor ponsi tra via
Quasi rugiade in sui macigni, e fuso
Stilla in algido rio ne le caverne.
Benchè agli occhi invisibile, commisto
Vaga nell'aria e dappertutto abbonda
Generato con quella un vapor lieve,
Che vanisce per caldo, o si condensa
In acqua. E se non fosse, or come errante
Nuvoletta traslucida e leggiere
Allargarsi potrebbe a sterminata,
Piova e rovesci, che ne treman gli ardui
Gioghi e le valli, e cala il precipizio
De' torrenti disciolti a la pianura?
Dall' alte regïoni inver' diresti
Ruïnar l'imminente etra, e disfarsi
L'aria, al guizzo de' lampi, al repentino
Crepitar delle folgori e de' tuoni.
Che poi per freddo che l' assaglia intenso
L' aria i natanti suoi vapor dispogli
E in gelid' onda li converta, aperto
Lo ti faran, non ch' altro, i sensi e l' uso
Della vita: chè in piccioli soggetti
L' intento a più solenni opre si avvisa.
Fresca infondi alla state onda in polito
Cristallo, e rugiadoso ecco velarsi
L' esterïor del vase, che di gocce
Tutto quanto si grandina e punteggia;
L' accolta linfa il vetro agghiada, e tocca
Dal subito rigor la circostante
Aria appanna la tazza, e vi si stilla
E s' aggranella in gocciole e trasmoda.
Infra i lieti ricinti entra e i guardati
Soppalchi e tra le ajuole, ove tra molli
Fragranze il verde vigoroso esulta
Del cedro, e spiega la camelia il fasto
D' estranio clima, e vive in serbo e cresce
Quanto spontanea tra' suoi campi odora
E pinge la serena Africa e l' Indo.
In sul chiuder de' mesi ivi dall' alto
Dell' assito, commessi infino a terra
Calano obbliqui a la difesa i vividi
Cristalli, e molta all' uopo arde riposta
La fiamma, che le tepide rinnova
Aure d' aprile. Or d' onde avvien se il verno
Assidera all' aperto, che s' annebbj
Di frange candidissime e nevose
Addentellate falde il vetro opposto,
E fumi e sudi e in rivoli si stempri ?
L' esterna brezza il vetro aggela, e il chiuso
Aer caldo battendo agli spiragli
Della luce, il contrario rigor sente:
Sì che la vaporosa acquea sustanza
S' accumula in rugiada e gronda a rivi.
Tal là dove nè pioggia unqua ristora
L' arso paese, nè le vette inalba
La neve, di sorgenti esser si stima
L'aere principio, perocchè di questa
Seppe a tutti i viventi esser cortese
Natura e Dio: non altrimenti il guazzo
Della rugiada nelle notti abbonda
Al campo, cui più lunga e più crudele
A' soli estivi disertò l' arsura.
Pur se risponde al vero e nol contrasta
Che a più fonti alimento il trasmutarsi
Porga dell' aria, lo direm di tutti
Ugualmente secura origin sola ?
Forse per altri accorgimenti uscirne
Non ne potrebbe alcuna: anco divisa
Da colli e monti, anco dal grembo istesso
Dell' isole, cui cerchia e assedia il flutto
Che d' ogni terra le distingue ? Il rio
Che ne disseta or qui, forse ch' ei tragge
D'estranio clima. D' un' aerea balza,
Sott' altro ciel, da più conserve il corso
Prese correndo a valle, e fra gli abissi
Suoi dolci umori ad ogni sguardo ascose
Camminando sotterra; anco le vòlte,
Non perturbato, di frapposti mari
Sottentrò, nè lo vinse ostacol mai
Per tante vie suo libero seguendo
Natural pondo, e dallo scender giuso
Altrettanto al salire impeto e lena
Racquistando, le vergini sue linfe
Con maraviglia ad altro ciel commise.
Che d' un' estrania terra origin prenda
Un fonte, ed altra ne disseti, il canta
Ne' dismessi suoi carmi anco l' antica
Mittica scola, che la nuova etade
Mandò proscritta a lusingar gli orecchi
Di vecchierelle intese all' aspo e al fuso,
E a declinar nel sonno impeti e gare
Di baldanti fanciulli. E pur verace
Tuttavia ne parlava il peregrino
Saver de' padri, inclita Amalia! Or come
Per dilettanza alcun porge talora
Intento orecchio a novellette, a fole,
Odi me; che seguendo un ver restio
Di nostre Muse indocile al concetto,
Infino a qui mi faticai, cercando
Pure alcun fior che della via solinga
Ricreasse l' affanno; ed ora a modo
Di riposarmi, le credenze e i lieti
Sogni di greche fantasie rammento.
Tutti dell' etra i campi, e il mostruoso
Mare, e la terra popolò di Numi
La prisca etade: perocchè di tutto
Il creato custode era qualcuna
Intelligenza; e l' albero cortese
D' ombra e di frutto, possedean silvestri
Ninfe, e Ninfe leggiadre avean dell' acque
La balìa, perchè dolci e lievi e monde
Di lor fonti salissero. Nel grembo
Invïolato della vergin terra
E de' placidi fiumi i cristallini
Seggi locârsi delle Dive, accolte
Fra selve risonanti e chiusi laghi
E gemmati ricinti e il Dio del loco
Dall' urna a cui s' abbraccia i vivi argenti
Diffondea, qual chi adopra e ad altro intende.
Ivi di tutte quelle Ninfe, accinte
All' idrie, a' cribri, a stillar vene, a cernere
Prezïosi cristalli e sabbie e gemme,
Era sempre una danza, una faccenda
D'amorosi racconti e di canzoni;
Di cui soave al cor dell' accigliato
Nume venia la tenera dolcezza,
Chè all' opre e al canto si prendea diletto
Surto così d' Arcadia in fra' l' più chiuso
Delle selve, correa ver' la sagrata
Elide, i giochi ad allegrar di Pisa
E d' Olimpia le feste e i sagnficj,
L' antico Alfeo: chè necessario e caro
Era il tesoro di quell' onda alI' aspre
Arcaiche spiagge, al Menalo, all'aprico
Erimanto; ma sparve un dì l' usato
Refrigerio, sommerso infra' dirotti
Scoscendimenti, e l' arsa Elea deluse.
Squallida farsi allor tutta fu vista
La campagna, già florida e beata;
Nè più all' are di Giove educò verdi
Le ghirlande, o alla fervida palestra
Menò fresc' onda a ristorar le membra
De' combattenti, e a rattemprar la foga
Di volanti quadrighe. Un cotal danno
Compiangendo, e volgendone in pensiere
Le temute cagioni, a' lari suoi
Tornava con le vuote idrie dal fiume
Una fanciulla, che leggiadra e schiva
D' amorosi colloquj, era l' affanno
D' innamorato pastorello. Avverso
Egli ebbe amor; ma dolce era il suo canto
Nel favor delle Muse, e de' portenti
Altrui più chiusi possedea l' arcano.
Alta d' amor necessità, le disse,
Il patrio fiume ad esular conduce
Quinci lontano: le tremende impara
Dello sprezzato iddio fiere vendette.
Di boschi abitatrice, esercitata
In dure cacce (ancor che bella e in fiore
Degli anni suoi) visse ad amor nemica
La vergine Aretusa; e nulla al mondo
Le toccava la mente, in fuor che l' arco
E la faretra e il veltro, affaccendato
Per macchie e sterpi e triboli e dirupi,
L'orme servando di più nobil fera.
A che del lume delle grazie indarno
Fregiarsi, e tanto innanzi a le compagne
Prevaler di bellezza e leggiadria,
Se freddo e più che selce alpestre e duro
Le diè natura e sconoscente il core?
Di lei si narra, che anelante e stanca
Per sentier faticosi, in sul merigge
Da Stinfalo venisse a dissetarsi
Nelle correnti dell' Alfeo: che vista
Cheta intorno ogni cosa, e nel silenzio
La foresta, si ardisse ne le molli
Acque del corso spegnere il travaglio
E ricrearse di vital lavacro;
Onde fatto dell' armi e delle vesti
Un viluppo, con subito ribrezzo
Abbandonossi dalla ripa: e velo
Le si fèr l' acque, tacita labendo
E correndo la vergine a seconda.
Virtù novella allor di voluttade
E vaghezza d' amore il divin corpo
Via per l' acque diffuse, e dai sopposti
Gelidi spechi risentissi il Dio
Generatore: che dai gorghi udito
Fu dalla Ninfa articolar parole
D' amore. Come timida colomba
Cui nibbio voratore agiti e prema,
Delle vesti dimentica e dell' armi
Surse all' opposto margine atterrita
E confusa la vergine di subita
Paura; e l' amoroso Iddio pigliando
D' uom sembianze, consegue a tutta lena
La dissennata via per campi e balze
E perigli; l' ardor cresce l' affanno
Della corsa, l' anelito combatte
Più sempre i fianchi, e più d'appresso incalza
Con l'ansia e con lo scalpito frequente
L' insecutor: di cui crescere innanzi
A suoi passi vedea l' ombra, con tutto
L'altero capo e l' omero sovrano,
Perocchè il sole li ferìa da tergo.
Ma già il tumulto dell' Ionio e il suono
Approssimava; e nulla era la speme
Di scampo a la fuggente: che ricorso
Ebbe a Dïana, di cui l' arti e il casto
Proponimento riveria. La Diva
Udinne i prieghi, e le ravvolse intorno
Tale una densa opaca umida nube,
Che ad ogni vista la coperse. Un nuovo
Orror le corse per le membra; gelido
Stillarono sudor gli aurei capegli,
Fuso in acqua disfarsi il vergin corpo
Sentì la Ninfa e trasmutarsi in vivo
Ruscello: innanzi a cui dell' invocata
Ecate al cenno, obbedïente aprissi
La terra che l' accolse e la nascose.
Ma dall' impreso amor non si rimase
L'infelice deluso, e dall' aspetto
Suo primo uscendo, seguitò l' amica,
Tornato in fiume. L' onde consapevoli
Laggiù mischiârsi, d' intentato calle
Camminando gli abissi; il flutto amaro
Non le rattenne dell' Ionio, o il mare
Sicano; e intatte uscirono ai felici
Campi d' Ortigia, a cui l' innamorato
D' Aretusa e d' Alfeo fonte si spose.
Fors' anco assidua del terreno incombe
La pressura d' un pelago non visto
Sovra l'acque costrette; e via per fessi
Della terra schizzando escono a un modo
Seguitamente. Che sotterra alberghi
Quinci e quindi gran serbo, il manifesta
L' affondar di paese, il repentino
Di laghi aprirsi per tremoto, il sorgere
E vibrarsi talor d' acque vulcani
Da squarciate latebre. Altero e grande
Spettacolo: a veder fendersi il duro
Fianco del monte, o con più crolli aprirsi
Lande asciutte e convalli, e inver' le stelle
Sospinto alzarsi acqueo volume, e tronca
Indi la cima, riversarsi al piano!
Così, come per gioco e per diletto
Di lieta amica compagnia, dispone
Lunghesso agli atrj, a' pergolati, a' verdi
Spalliere, ospite egregio ai caldi mesi
Limpida vena; che al tentar di molle
Tra il fesso occulte dello spazzo, al pronto
Scoccar d' ordegni, zampillando aggiugne
I fuggenti e ravvolge infra gli sprazzi.
Che da gioghi montani e da burrati
Colando si precipiti e rintani
Acqua mal nota a' vivi, ed intromessa
Per sotterranee strade impeto assuma
A risalire, e il chiuso urti di sotto
Che la ricopre, lo diranno i campi
Mutinensi, fra cui povero e scarso
Nell' arenoso letto erra a la state
Scultèna e Secchia. Sterile di vive
Acque correnti è quella piaggia, e spesso
A' dì canicolar' d' ogni ricolto
La speranza vi falla: e non per tanto
Co' dorsi alteri le sovrasta e preme
L' Appennin, da cui solve italo sole
Tanti all' uopo di molli onde lavacri.
Ma dagli erti comignoli correndo
A fili, a rivi, a torrentelli, assorta
Tanta copia è da terre ingorde e scabre
Nel pian suggetto all' alpe; onde all'aperto
Non si dimostra, e nega all'arse glebe
Circostanti e alle smorte ombre ristoro.
Sicchè, battuto il suol, rende sonora
Voce per entro; e se l' orecchio a terra
Metti attento; confuso odi un subuglio,
Un romor di correnti acque sepolte,
Qual di fiume che rompa e corra in piena.
Quindi antica e lodata opra si stima
Schiuder da pria nel terren molle un vano;
Indi con succhj e manovelle il duro
Forar dell' incombente intima vòlta,
Serraglio all' acque; ond' elle alzansi a volo
Torbide in prima e spumeggianti, e il sommo
Vincon del pozzo a cielo aperto, e cheta
Dappoi la foga, limpide e sincere
Zampillano dal fondo e rio si fanno.



FINE DEL LIBRO TERZO


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